di Salvatore Fiorentino © 2022
Uno dei nodi problematici che affligge la narrazione dei cosiddetti “opinion leader” su questioni di vasto interesse generale, come la pandemia o il conflitto armato in Ucraina, è quello del discernimento della verità, dei fatti e quindi delle deduzioni sugli stessi. Molti sembrano trascurare che, come ha insegnato Leibniz, ogni dato oggettivo può essere osservato, e quindi considerato, da una pluralità virtualmente infinita di punti di vista soggettivi. Ciò che un osservatore vede, come ha poi dimostrato Einstein, dipende dal suo sistema di riferimento, ossia dalla sua posizione in relazione dinamica con l’oggetto di osservazione. Ma neppure Einstein aveva compreso, come fu infine provato da Hubble, che anche le stelle cosiddette fisse, ossia lontanissime dalla Terra, in verità sono in movimento, come tutto l’universo. E’ del resto di comune esperienza provare l’illusione che il treno o la nave in cui si viaggi si stia muovendo mentre a farlo è il mezzo che sta passando a fianco.
Ciò comporta la conclusione che non esiste una sola verità, ma infinite, ciascuna vera secondo il differente punto di vista, il diverso sistema di riferimento. Ecco che si pone una questione fondamentale: come discernere la verità tra le tante possibili, e qual’è la verità più vera tra le tante? E qui si insinua l’errore epistemologico secondo cui soccorrono le scienze cosiddette “esatte”, ancora oggi viste in contrapposizione alle scienze definite “umane”. E’ opinione comune che la regina tra le scienze “esatte” sia la matematica, ma anche alla filosofia è attribuita una formidabile capacità verificatoria. Tuttavia, entrambe, procedono alla verificazione di una ipotesi attraverso un ragionamento che, per quanto connotato da rigorosa coerenza e logicità, risponde inevitabilmente ad un dato sistema di riferimento, il quale, da solo, non può abbracciare la complessità delle verità possibili e, soprattutto, non può dimostrarsi esaustivo del punto di vista dell’essere umano.
E’ parimenti opinione comune che la regina delle scienze umane sia la letteratura, ed in particolare la poesia. Ed in effetti, sia la forma compositiva del romanzo che quella della poesia permettono di raggiungere il più alto grado della verità, quella che in fondo interessa all’essere umano. Quella che non sia astratta perché generata dal calcolo di una fredda logica binaria, ma invece permeata dal senso della vita, ossia da ciò che non sarà mai riducibile a qualsivoglia e per quanto sofisticato algoritmo possa essere mai prodotto in laboratorio. A questo proposito, la teoria della “pluridiscorsività” del romanzo elaborata da Michail Bachtin e il concetto di “metafora viva” proposto da Paul Ricœur forniscono una dimostrazione “scientifica” (e di valenza ben più profonda di quanto possano offrire la matematica o la filosofia) del fatto che la letteratura fornisca la verità che interessa l’uomo, l’unica che abbia senso ascoltare e difendere perché comprensiva di tutte le altre.
Ciò accade perché la letteratura non deve dimostrare nulla a nessuno, non essendo tenuta a ricercare né ad esibire le prove di ciò che afferma. Essa difatti non si basa su prove, inevitabilmente parziali e quindi costitutivamente false, ma sul vissuto che la genera e sul senso che essa stessa produce mediante il noto processo della “intertestualità”. Lo scrittore o il poeta non rispondono ad una verità autoritativa, ma narrativa, mitopoietica, che come tale fonda nella sua assoluta libertà la capacità di essere umanamente e non oggettivamente vera. Non è quindi un caso se gli eventi storici trovino nelle opere letterarie più compiuta e diretta comprensione, nella dimensione universale, che nei testi “scientifici” di storiografia, spesso intrisi di ideologia e malafede, se non viziati dal pregiudizio e dalla miopia degli studiosi che spendono enormi energie per rinvenire il documento d’archivio perdendo di vista il disegno generale, la prospettiva del senso.
Potremmo e dovremmo ritenere, pertanto, che più che la storia sia la letteratura a dover assumere il ruolo di “magistra vitae”, chiedendoci nel contempo se essa disponga di scolari in numero sufficiente, dato che, secondo Gramsci, la storia non ne avrebbe. Ecco che l’attuale società tecnocratica occidentale, ipercapitalista ed iperliberista, che si arroga l’appartenenza alla parte “giusta” della storia, ha umiliato le “scienze umane”, ed in primis la letteratura, a favore delle discipline “tecnico-scientifiche”, così commettendo il grossolano errore (o delitto se non si voglia concedere il dubbio della buonafede) di innalzare la “tecnica” ad un ruolo che non le compete, ossia quello della “scienza”, facendo coincidere impropriamente i due termini. Con ciò si pretende di asservire l’uomo alla tecnica, ai suoi algoritimi che il Leviatano di turno immetterà nel sistema di controllo sociale, dove al posto dei cittadini ci saranno solo sudditi manipolati dagli strumenti di comunicazione di massa. Vae victis.