di Salvatore Fiorentino © 2020
Il distretto giudiziario di Palermo è il più importante della Sicilia e tra i più importanti d’Italia. Negli anni ’90 da Palermo e da Milano è passata la storia recente del Paese, quella che ha determinato le vicende degli ultimi trent’anni perlomeno. In questo contesto hanno assunto primario rilievo gli uffici requirenti (procura della repubblica e procura generale), che hanno competenza su tre province: Palermo, Trapani e Agrigento, territori dove, sotto l’occhio vigile della falsa antimafia, si sono intrecciate mafia, politica e massoneria.
In questi trenta anni il palazzo di giustizia di Palermo è stato al centro di innumerevoli “casi”: dalle lettere del “Corvo” alla mancata perquisizione del “covo” di Totò Riina, sino ai più recenti casi “Saguto” (condannata in primo grado ed espulsa dall’ordine giudiziario) e “Scarpinato” (condotta disdicevole ma non penalmente rilevante secondo la procura di Catania, né disciplinarmente rilevante secondo il CSM), il primo assurto alla ribalta mediatica, il secondo passato in sordina come l’altro “caso” della scomparsa di supporti informatici contenenti indagini su Messina Denaro.
Un capitolo a parte meritano poi gli innumerevoli scontri consumatisi all’interno della stessa procura della repubblica, quelli occorsi tra i pm palermitani e i carabinieri del ROS ma anche quelli avuti con i colleghi della procura di Caltanissetta, quest’ultima vista con malcelato fastidio, non foss’altro perché competente ad indagare sui magistrati del distretto di Palermo. Eppure, ancorché solo recentemente, da Caltanissetta sono provenuti gli unici sprazzi di verità su vicende clamorose, come il depistaggio “Scarantino” o il “caso Montante”, che hanno gettato ombre inquietanti.
E con il “sistema Montante” entrano in gioco prefetti, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, colletti bianchi dell’amministrazione regionale, che con una certa sedicente politica “antimafia” hanno costruito una macchina quasi perfetta per perseguire l’illecito al riparo dell’apparente liceità di condotte invero spregiudicate oltre ogni immaginazione, con l’ostentazione della certezza dell’impunità, con l’abuso della legge come arma impropria per eliminare chiunque si fosse opposto, riuscendo persino nel sovvertimento democratico con lo scioglimento per mafia ma senza mafia.
E si dovrebbe tornare, col senno del poi, sulla strana archiviazione del caso “mafia e appalti”, così come andrebbe rivista da cima a fondo la retorica della “trattativa Stato-mafia”, facce della stessa medaglia, quella che probabilmente cela la chiave di lettura dei misteri d’Italia dal dopo stragi dei ’90 ad oggi, in quello che inizia ad apparire come un depistaggio della verità storica ancora più che di quella processuale. E se vi fosse un ministro della giustizia non uso a copiare i documenti dell’ANM si potrebbe persino ipotizzare una ispezione sugli ultimi trent’anni di attività. Per la verità.