di Salvatore Fiorentino © 2021
Da quando è venuto meno il primato della politica, con la delegittimazione del sistema dei partiti, è scattata la corsa alla supplenza, più o meno diretta, per riempire un vuoto che in natura non può esistere. In questa corsa, da almeno trent’anni si distinguono – oltre agli accademici, ai banchieri e agli imprenditori cosiddetti – gli esponenti della magistratura. Che non hanno pudore a scendere in campo, indossare una casacca, giocare la partita, inzupparsi di fango (a parte l’ex procuratore Grasso che, a quanto narrano le cronache, usciva sempre lindo dal campo di calcio con la Bacigalupo), e talvolta rientrare nei ranghi togati. Altri no, appendono la toga al chiodo, perché in effetti non era quella la loro vera vocazione.
Nella vulgata in voga il magistrato è dipinto per lo più come uomo (donna) di sinistra, anche se con l’avvento del berlusconismo non pochi hanno rivelato le proprie interessate affinità verso la destra. A quanto pare, ultimamente ci sono anche magistrati filo-grillini. Mentre non fanno testo i veri magistrati, che si tengono ben distanti dall’agone politico, pur coltivando, come qualunque cittadino, le proprie idee, ma mai strumentalizzando il ruolo in ossequio alla separazione dei poteri. Non può negarsi, infatti, che il magistrato che prende parte alla contesa politica, assumendo cariche o solo esternando il suo favor verso un partito, tradisce la sua ragion d’essere, umilia sé stesso oltre ad offendere i cittadini.
Al magistrato, difatti, la società civile affida l’amministrazione della giustizia, eguale per tutti, in nome del popolo sovrano. Egli dovrà pertanto rispettare questo ruolo se vorrà indossarne adeguatamente le vesti, sapendo rinunciare alle sue passioni, tuttoché consentite, ma che si dimostrino non solo incompatibili ma anche inopportune per l’abito togato. Altrimenti onestà vuole che debba intraprendere un diverso cursus honorum, come ad esempio quello del rappresentante politico, facendosi eleggere dai cittadini sulla base di programmi che saprà esporre nei suoi comizi pubblici, nelle sedi a ciò deputate. Perché l’amministrazione della giustizia, sopra tutte, esige il massimo grado di impersonalità prima che di imparzialità.
Proprio il contrario di ciò che si osserva da qualche decennio. Laddove non pochi hanno malinteso il tribunale come una tribuna per affabulare un popolo sempre pronto a plaudire l’uomo forte, chi la ragione se la giudica da solo, sicuro della propria autorità, che alla bisogna getta sul piatto della bilancia della contesa come la spada di Brenno, con gesto grottescamente gladiatorio, per accattivarsi l’ovazione del pubblico astante, il quale è impaziente di saltare sul carro del vincitore autoproclamatosi tale. Ma è una degenerazione anche produttiva, che ha creato posti di lavoro, gratificando quella pletora di giornalisti che pendono dalle labbra (o dalla barba, a seconda dei casi) del magistrato tribuno di turno.
Sicché il magistrato della provvidenza è bell’e fatto. Ed è un magistrato che sputa sentenze, dentro e fuori i tribunali, anzi più fuori che dentro. Le sputa su chi non la pensa come lui, su chi gli mostra che si sta sbagliando, che esistono altri punti di vista oltre il suo, che ritiene fisso e indiscutibile, inappellabile. Rivendica studi di diritto come se fosse un titolo di omniscienza, rafforzandolo con citazioni filosofiche da terza liceo, e tentennando quando gli vengono contrapposte quelle di quinto anno. A quel punto, come un camelide impaurito, sputa disprezzo verso l’interlocutore, con raffiche di logorrea per seppellire chi ha osato seminare qualche ragionevole dubbio. Un leviatano, osannato dai sudditi che ha forgiato nella sua fucina.