De “bibitaro”

di Salvatore Fiorentino © 2021

Anche chi non ha mai apprezzato Umberto Eco non può negare di rimpiangerlo oggi che sarebbe quanto mai necessaria una “fenomenologia” di Luigi Di Maio, al pari di quella “di Mike Bongiorno”, celeberrima per aver consacrato tanto chi l’ha scritta quanto chi l’ha ricevuta al genere culturale della parafilosofia, nello specifico l’estetologia dei mass media. Ma prima di tentare di affrontare un tema che avrebbe fatto tremare anche Hans Georg Gadamer, ossia quello del “bibitaro”, occorre una preliminare precisazione, per cui basta dire che “l’italiano non è l’italiano, è il ragionamento”. Quindi si dice qui “bibitaro” non per designare la professione del venditore ambulante di aranciate e coca-cola, ma per tratteggiare l’essenza del profilo di un personaggio sui generis della (anti)politica italiana.

Si può iniziare col dire che secondo il principio darwiniano della prevalenza non dei migliori ma dei più adatti – che descrive meglio di ogni trattato di economia la quintessenza del capitalismo, il quale per sopravvivere a sé stesso genera varianti più del Coronavirus, così vanificando la ricerca dell’antitodo, donde habemus Mario Draghi in loco Giuseppe Conte – un personaggio come Luigi Di Maio è l’esemplare della specie vincitrice su tutte (compresa quella dei Mastella) in questo universo mondo della politica italica. Poco importa se il “bibe de oro” non azzecchi i congiuntivi (per la verità neppure i condizionali), dato che, come detto, conta il “ragionamento”. E il “ragionamento” del giovane di Pomigliano d’Arco, venuto al mondo nel non lontano 1986, non fa una piega.

Perché mai perdere tempo prezioso in inutili e sudate carte per poi trovarsi a fare l’emigrante, col fagotto pieno di master e dottorati ricerca, come cameriere a Londra o nella migliore delle ipotesi schiavizzato al soldo di qualche società multinazionale o megastudio professionale (Renzo Piano & Partners docet), se con un semplice diplomino e un furbo attivismo (anti)politico si può scalare in quattro e quattr’otto la vetta del mondo? Deputato nazionale, vicepresidente della Camera dei deputati, capo politico del M5S, ministro dello sviluppo economico e vicepremier, ministro degli esteri e ora ideologo del “cambiamento” purchessia, che più che fare tesoro dell’insegnamento di Tomasi di Lampedusa (ma chi é costui?) sembra orecchiare la canzonetta di Fiorella Mannoia (“Come si cambia”).

All’inquietante quesito “moriremo democristiani?” il “bibitaro” a cinque stelle ha dato a suo modo la risposta: “no, ma moderati e liberali si. La rivoluzione era solo uno scherzo, un modo di dire, suvvia. Perché ci avevate creduto? E l’ideologia dei ‘vaffa’? Ma non pensavate che facessimo davvero sul serio, era una evidente provocazione. Il nostro obiettivo non era certo combattere la “casta” ma cacciarla, per prenderle il posto. Se per raggiungere questo obiettivo si deve sacrificare qualche ideale (che come tale è appunto nel mondo delle idee secondo Platone, che si studia in prima liceo classico ed io l’ho studiato bene e quindi sono competente in materia), cambiare premier e maggioranza con la stessa frequenza della biancheria intima, è un dovere etico farlo con trasparenza ed onestà intellettuale, quella che ci contraddistingue”. Come dargli torto.

In vino veritas, dicevano i latini, e la verità del “bibitaro” è lapalissiana, sicché è in patente malafede chi non gli presta fiducia, chi lo avversa per qualche congiuntivo fuori consecutio, chi gli contesta l’ambizione sfrenata e il cinismo da statista che neppure un redivivo Giulio Andreotti potrebbe vantare, chi lo accusa di aver sempre congiurato contro l’ex premier che ora viene invitato a fare il capo politico del Movimento Cinque Stelle da questo ancora trentenne che si ammanta dei panni del “padre nobile”, come un D’Alema qualunque che investì Romano Prodi, avendo bisogno di una controfigura che presti il volto a chi non possiede il profilo per vincere le elezioni. Alle quali il “bibitaro” pensa di farsi trasportare sul carro dell’attuale vincitore pro tempore Mario Draghi, salvo poi saltare sul carro che spera di far tirare da Giuseppe Conte.

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