Toghe arrossite

di Salvatore Fiorentino © 2021

Quando il magistrato, specialmente chi esercita la funzione requirente, si erge a moralizzatore dei pubblici costumi si entra a pieno titolo nella zona di anomalia, perché si finisce presto per sconfinare nell’ambito di competenza dei ministri di culto, semmai della politica, con una violazione dello stato di diritto, in cui il potere giudiziario è indipendente e autonomo, ma anche separato dagli altri poteri che reggono l’edificio civile democratico. Una cosa è partecipare al dibattito pubblico sulla giustizia, incarnare i valori della legalità con l’esercizio esemplare del proprio ruolo, divulgare la cultura dei diritti civili e della giustizia sociale, altra è presumere di possedere una funzione “salvifica” e liberatoria rispetto ai mali della società, generalizzandoli e confinandoli entro la pertinenza di determinate categorie, quali “la politica” e persino “l’avvocatura”, in una visione manichea e poco rispondente alla complessità della realtà effettiva che si vorrebbe descrivere. Sicché, al di là delle battute di spirito e dei paradossi ad effetto (“rivolteremo l’Italia come un calzino”; “non ci sono innocenti, ma solo colpevoli ancora non scoperti”, “si rischia meno ad uccidere la moglie che a divorziare”), che si attagliano più ad un uomo politico ed ancor di più di spettacolo che ad un magistrato, traspare in alcuni esponenti togati, che hanno assunto de facto il ruolo di “opinion leader” per la notorietà cavalcata grazie ai casi eclatanti che hanno avuto modo di trattare, la radicata convinzione di dover esercitare un ruolo ultra partes, che eccede il potere conferito ad un soggetto reclutato per concorso.

Non può difatti negarsi, alla luce dell’esperienza e dei fatti ricorrenti alla ribalta delle cronache quotidiane, che la devianza sia un carattere genetico dell’essere umano e che pertanto attraversa trasversalmente tutte le sue attività private e pubbliche, non potendo quindi ritenersi che vi sia una categoria professionale o una parte politica che ne possa risultare esente o affetta in misura minore rispetto a tutte le altre. Così come non può esistere un “partito degli onesti”, non può esistere un’ordine professionale o un potere pubblico che sia di per sè depositario della “legalità”, della “verità” e della “giustizia”, a cui si tende semmai, senza mai realizzarle pienamente nell’imperfetto mondo reale, soltanto attraverso il confronto, dialettico e dialogico, tra le diverse visioni, anche contrapposte, i diversi contributi, anche inconciliabili, che sono portati dalla pluralità degli attori sociali. Ma la visione “giustizialista” non ha origini interne alla magistratura, provenendo da un preciso settore della sinistra culturale italiana, laddove il suo primario profeta ne fu quel “magistrato” prestato alla politica che risponde al nome di Luciano Violante (nomen omen), che completò questa sua visione estendendola nel settore, oggi controverso, dell’antimafia. Secondo Violante e il suo sodale e collega a Torino negli anni di piombo, Gian Carlo Caselli, legge e ordine sono sinonimi, condizione di progresso civile e politico, così come fare il magistrato e schierarsi a sinistra politicamente significa stare dalla parte della giustizia e della democrazia, minacciate dal potere, contribuendo a rimettere in carreggiata la storia.

Il vulnus di questa impostazione “parziale” si manifesta nel momento in cui è la sinistra a farsi potere, e soprattutto quando appare evidente la messa in pratica di malcelate idee e sfrontate azioni che neppure la destra avrebbe immaginato e creduto di poter affermare. Ed è in questo momento che magistrati onesti, capaci e idealisti come Gian Carlo Caselli restano spiazzati, perché in fondo traditi, come i cittadini, quel popolo in nome del quale si dovrebbe amministratre la Giustizia, dai loro stessi sodali e compagni, nel momento che questi ultimi, come ad esempio lo stesso Luciano Violante, diversamente onesti, capaci e idealisti, perché votati all’inseguimento, senza se e senza ma, di quel potere tanto agognato, imboccano la strada del compromesso, in nome di una “realpolitik”, altrimenti detta “equilibri di sistema”, che non è altro che la foglia di fico (in questo caso arrossita di vergogna) dietro la quale riparare, maldestramente e comunque senza troppi scrupoli. Ecco allora Caselli macerarsi ancora oggi, al processo d’appello sulla “Trattativa Stato-mafia”, sulla anomalia, enorme, della mancata perquisizione del covo di Totò Riina, oppure appligliarsi alla nostalgia della stagione di “Mani pulite”. Ma lo smentisce Nino Di Matteo all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Palermo, quando afferma che la magistratura deve riconquistare la credibilità perduta. E di più lo smentisce la figura di Giovanni Salvi, neo procuratore generale presso la Cassazione, simbolo di una magistratura burocratica e autoreferenziale, quando rimbrotta chi chiede effettiva giustizia per le “vittime del dovere”.

(1 febbraio 2020)

DAVIGO, IL NUOVO “BERSAGLIO GROSSO”

di Gian Carlo Caselli

Gran parte della politica, in Italia, tende ad autoassolversi riducendo il cancro della corruzione sistemica a isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. Un “revival” di tale tendenza è la campagna di rivisitazione del ruolo politico di Bettino Craxi. Molti ne sono i protagonisti e gli obiettivi. Fra questi la magistratura, in particolare Mani Pulite. Come ha osservato Barbara Spinelli su questo giornale, definire Craxi non “latitante” ma “esule” è come invalidare le sentenze, con effetti devastanti sulla legittimità del sistema giudiziario.

Circa 27 anni fa, la stagione di Mani Pulite segnò – per il nostro Paese – un forte recupero di legalità. Sembrava prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. Poi invece ebbero il sopravvento l’indifferenza o l’ostilità verso chi dall’interno dello Stato cerca di garantire la legalità. Di qui gli attacchi – tra l’altro – alle pretese invasioni di campo dei giudici. Con esiti perversi, perché mettere sotto accusa i magistrati, invece dei corrotti e collusi, comporta per costoro una minore fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste. Esemplare, in questo percorso, è stato l’uso cinico del termine “giustizialismo”. Parola un tempo sconosciuta nel lessico giudiziario; poi introdottavi con la precisa finalità mediatica di diffondere pretestuosamente l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata; ormai adoperata con la stessa intensità dei “tackle” nelle peggiori partite di calcio, fino a farne un cardine della propaganda ingannevole basata sulla ripetizione assillante che alla fine fa sembrare veri anche i falsi grossolani.

Nei confronti della magistratura questa tecnica è stata applicata in modo implacabile da Silvio Berlusconi. Le indagini milanesi sulla corruzione erano per lui “del tutto estranee a uno Stato di diritto, sintomi di faziosità eretta a regime giudiziario e di una gestione accanita e politicizzata della giustizia penale”. A seguire, ci fu la proposta di una Commissione parlamentare d’inchiesta per “accertare se ha operato nel nostro Paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura” (così il portavoce di Forza Italia, on. Bondi). Senza negarsi proteste di piazza contro i giudici “scomodi”, con manifesti osceni tipo “fuori le Br dalle procure”. Portando ai livelli di guardia la compatibilità con le regole di convivenza istituzionale proprie di un sistema democratico.

Oggi – si direbbe – l’insofferenza verso la magistratura registra, dopo la stagione dell’esuberanza (?) berlusconiana, un’inedita declinazione, il cui “bersaglio grosso” è un singolo magistrato: Piercamillo Davigo, il “dottor sottile” di Mani Pulite, componente del Csm, spesso chiamato dai media a intervenire sui problemi della giustizia e del processo, da ultimo il tema della prescrizione. Con un linguaggio non felpato, mai in “giuridichese”, ma chiaro e netto (perciò temuto da chi preferisce le cortine fumogene), Davigo usa prendere posizioni argomentate e graffianti. Dissentire anche con vigore è ben possibile. Ci mancherebbe. Ma gli avvocati sono andati oltre. Quelli di Torino, Lanusei e Reggio Emilia hanno chiesto per Davigo sanzioni disciplinari; quelli di Milano che non possa partecipare alla cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario di sabato prossimo per la quale è stato designato dal Csm. Il “capo d’accusa” degli avvocati è tuono e tempesta: magistrato “accecato da visioni giustizialiste”, colpevole di “un violentissimo attacco allo Stato di diritto”, che nega i “fondamentali principi costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo penale”.

In realtà quelle di Davigo sono idee e proposte tecniche sempre motivate, non comprimibili nel perimetro di antichi slogan a effetto. In ogni caso, le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio. Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare. Assurdo: come pretendere che i medici non parlino di sanità o i giornalisti di informazione. La speranza, dunque, è che la furia degli avvocati (i “principi” del contraddittorio) si plachi, recuperando le forme di un articolato confronto. Così da respingere ogni atteggiamento che possa essere letto come pericoloso per la libera manifestazione del pensiero.

[articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano”, 31 gennaio 2020]

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