di Salvatore Fiorentino © 2021
Ha ragione uno storico dell’arte come Tomaso Montanari o un banchiere come Lorenzo Bini Smaghi? Nella singolar tenzone catodica nella quale il primo si riporta ad un aforisma – che sarebbe da attribuire a Kenneth Ewart Boulding (1910–1993), economista, pacifista e poeta inglese naturalizzato statunitense – secondo il quale “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista“, mentre il secondo gli rinfaccia che senza il capitalismo non ci sarebbe l’arte, in una visione mercificata da cui gli artisti moderni hanno invero iniziato a fuggire nel ‘900. Si rispecchia così, seppur nella ridotta di una trasmissione televisiva, l’eterno (si fa per dire) scontro tra il primato del capitale e quello dell’arte, ormai pacificato nei musei d’arte contemporanea.
Così come è singolare che un uomo di sinistra debba ripararsi sotto la tunica papale, invocando l’ipse dixit di Francesco, per dare forza e autorevolezza al suo “ragionamento”. Tanto più che non fa una piega, in una visione cosmica che non debba neppure scomodare l’etica di un maestro come Kubrick nel capolavoro “2001: A Space Odissey“, bastando fare memoria di una più modesta, ma a suo modo originale, serie tv degli anni ’70, quello “Space 1999” in cui ogni tentativo di ritornare sulla Terra perduta si infrangeva contro la presa d’atto che il pianeta era stato distrutto e desolato dal “progresso”, da quello “sviluppo” irrefrenabile che sembrava senza fine (in tutti i sensi), ma che invece aveva dovuto fare i conti con l’oggettività di un “mondo finito” (ancora in tutti i sensi).
E’ anche vero che la retorica “ambientalista”, che si esaurisce nei buoni propositi e in misure buone solo per la propaganda e che quindi è improduttiva in termini di politiche effettive per il cambiamento del paradigma economico-sociale, ritorna di moda con un ciclo di circa cinquant’anni, non appena sia cessata la memoria della generazione precedente, come si è verificato dai ’70 agli anni ’20 del nuovo millennio, tanto è vero che si parla ormai di “greenwashing”, ossia di dare una mano di vernice verde ad un mondo offuscato non tanto dai fumi della combustione fossile ed irraggiato dall’invisibile ed impalpabile minaccia nucleare, ma piuttosto dalla incapacità a ricercare e soprattutto accettare un nuovo modello economico che si basi più sui fatti che sulle parole.
Un solo dato dice tutto: nel 1970 la popolazione mondiale contava 3,7 miliardi di persone; nel 2020 il numero degli abitanti del pianeta Terra, in soli 50 anni, si è quasi raddoppiato, raggiungendo i 7,8 miliardi di individui. E’ evidente che il modello della crescita infinita non sia né sostenibile né produttivo di sviluppo, ma solo di sfruttamento, povertà, concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissimi. E queste mani tanto più sono ricche tanto più grondano di sangue e lacrime. Come quelle che il neo premier italiano, il “professor” Mario Draghi, ha contribuito ad imporre al popolo greco, spogliato della dignità prima ancora che negli averi, come neppure la Germania nazista era riuscita a fare, mentre ci è riuscita quella “democratica” che dell’Euro ha fatto la sua nuova armata invincibile.
La pietra dello scandalo non è il denaro, ma il tasso di interesse. E’ la generazione di richezza dal denaro e non dal lavoro che sta conducendo verso il baratro, perché alla fine la massa del debito globale supera di gran lunga la ricchezza realmente prodotta. A questo si aggiunge la produzione fine a sé stessa, mentre occorrerebbe produrre solo ciò che realmente serve a soddisfare le esigenze dell’essere umano. Ed ecco che nuovamente si insinua il diavolo, facendo balenare come necessità quelli che sono solo bisogni apparenti, indotti da una manipolazione di massa che ha raggiunto un livello di sofisticazione così elevato che il “consumatore” è in verità il “consumato”, illusoriamente libero di scegliere tra una moltitudine di possibilità, ma prigioniero di questa scelta obbligata.