di Salvatore Fiorentino © 2021
“Un magistrato si ferma in due modi: con una bomba o con un altro magistrato”. Lo ha recentemente affermato dagli schermi televisivi l’ex pm Antonio Di Pietro, a proposito dei misteri che avvolgono la storia italiana dal post stragi dei ’90 ad oggi, tra depistaggi, insabbiamenti e clamorosi “non ricordo”. Le bombe sono state usate fino ad un certo punto, poi si è preferita la seconda opzione. Di Pietro fa capire che fu fermato dall’allora pm bresciano Fabio Salamone, che aveva un fratello dalle frequentazioni scomode in Sicilia, dato che stava per saldarsi l’attività di “Mani pulite” a Milano con quella di “Mafia e appalti” a Palermo. Lasciò la magistratura perché capiva che sarebbe stato stritolato, probabilmente consapevole di aver commesso qualche leggerezza agevolmente strumentalizzabile.
Tuttavia, occorre chiedersi perché l’indagine di “Mani pulite” non trovasse ostacoli ma anzi “fiancheggiatori”, mentre quella su “Mafia e appalti” venisse avversata in ogni modo possibile, sino ad essere frettolosamente archiviata alla vigilia di ferragosto dell’annus horribilis, il 1992, a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio. Il 14 luglio Paolo Borsellino aveva convocato una riunione per discutere del dossier “Mafia e appalti”, ma guardacaso il giorno prima veniva depositata la richiesta di archiviazione firmata dagli allora sostituti procuratori Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, vistata dal procuratore capo del tempo Pietro Giammanco che aveva sempre negato a Borsellino la delega per le questioni palermitane, perlomeno sino alla mattina del 19 luglio 1992. Troppo tardi.
A chi avrebbe nuociuto “Mani pulite”? E a chi avrebbe potuto nuocere “Mafia e appalti”? La risposta alla prima domanda è nota: ai partiti della cosiddetta “prima repubblica”, DC e PSI in primo luogo, difatti cancellati dalla storia politica italiana, così come i loro principali esponenti, assieme a PRI, PLI e PSDI. Si aprivano così le porte per la presa del potere da parte di chi guidava quella che venne definita come la “Gioiosa macchina da guerra”, ossia gli eredi del PCI, da sempre esclusi ufficialmente dalle stanze di governo e finalmente ammessi a corte, perché si voltasse pagina, pare per volontà delle alte sfere USA-FBI, che tolleravano sempre meno personaggi come Craxi e Andreotti, questi visti anche come ostacoli al progetto di deindustrializzazione dell’Italia voluto da Francia e Germania.
Ecco che la risposta alla seconda domanda è già data. “Mafia e appalti” avrebbe certamente nuociuto all’unica forza politica uscita indenne, e ad oggi non si capisce come, dal ciclone di “Tangentopoli”. Basti pensare che una grande azienda come la Rizzani de Eccher, con sede nel nord Italia – la stessa che otteneva grandi commesse nell’URSS quando ancora il Muro di Berlino era in piedi e in Italia il PCI riceveva i finanziamenti da Mosca – veniva rappresentata in Sicilia da tale Giuseppe Li Pera, geometra e mafioso, che orchestrava le danze per conto di “Cosa nostra s.p.a.” affinché si spartissero gli appalti, allora cospicui, nella terra del Gattopardo, mediante la parola magica “pass” che veniva apposta nelle lettere che le concorrenti sulla carta si scambiavano prima di una gara pubblica.
Sarà per questo che gli agenti FBI erano già sul teatro della strage di via D’Amelio prima che arrivassero tutti gli altri? Ancora una volta la Sicilia è campo di battaglia su cui cadono vittime innocenti in nome di una ragion di Stato internazionale, perché sia attuato questo o quel disegno geopolitico al di sopra delle teste dei cittadini? Ma evidentemente non è bastata una bomba per fermare Borsellino, se è stato necessario che non uno ma decine di magistrati abbiano dovuto impegnarsi per (non) trovare la verità dopo oltre un quarto di secolo, tra depistaggi già accertati (“caso Scarantino”) e novità che anche quando sembrano poter affiorare dopo decenni finiscono per suscitare reazioni incomprensibili, per tempistica e contenuti, persino da parte delle autorità preposte alle indagini (“caso Avola”).