Il ministero di disgrazia e ingiustizia

di Salvatore Fiorentino © 2021

Che nel corso degli anni abbia perso la “grazia” è il segno dei tempi ed insieme un oscuro presagio. Del resto si tratta di quel dicastero che è senza dubbio tra i più tribolati e malfermi della storia repubblicana, quello che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) sovrintendere all’organizzazione dell’amministrazione della giustizia civile, penale e minorile, oltre che di quella penitenziaria. Basta dire che tra i ministri dei tempi recenti si annoverano figure improbabili e non proprio attagliate al ruolo, come Clemente Mastella, Angelino Alfano e, dulcis in fundo, Alfonso Bonafede. Anche se a quest’ultimo la vulgata ascrive il merito di aver “presentato” l’avvocato (fu del popolo) Giuseppe Conte al Movimento Cinque Stelle (apriti cielo). E poi ci sono i ministri con pedigree “costituzionale” come Vassalli, Conso, Caianiello, Flick e Cartabia.

Sono anni, decenni, che si discute di riforma della giustizia. Ma, forse, non si riesce ad approdare ad un risultato concreto perché non si ha ben chiaro cosa si voglia intendere, oggi, per “giustizia”. Ovviamente, ciascuno ha la sua idea, sicché si iscrive al partito dei “giustizialisti” o a quello dei “garantisti” a seconda della convenienza del momento. Ma un dato è certo: se la “giustizia” non esiste nel paese, nelle sue leggi, nelle sue istituzioni, dalla più alta sino al più sperduto borgo di montagna, come si potrà mai pensare di trovarla in quegli strani palazzi, chiamati appunto di “giustizia”, che non riescono neppure a garantire a chi vi lavora un ufficio, una scrivania, una sedia e un semplice computer? E non siamo nel seicento, e neppure nell’ottocento, siamo ormai vicini al centenario dalla creazione del primo elaboratore elettronico.

Eppure ultimamente al ministero di disgrazia e ingiustizia qualcuno sembra aver riletto (malamente) le parole con cui Gesualdo Bufalino affermava che la mafia sarebbe stata sconfitta grazie ad un esercito di maestre elementari. Eureka! Ecco la geniale idea, che solo un ministro della giustizia (senza più grazia) di rango “costituzionale” ed insieme “accademico” poteva partorire, pare con la determinante collaborazione del collega “ammazzafannulloni” della funzione pubblica: assumere a tempo determinato un esercito di nuovi precari dal bacino dei neolaureati in giurisprudenza per affidargli il compito di risollevare le sorti della giustizia italiana, ossia velocizzare i tempi medi di un procedimento civile, penale o minorile. Come faranno è ancora un mistero che gli “esperti” del ministero stanno studiando.

Ma il vero assillo del ministero di disgrazia e ingiustizia è decidere a chi affidare la direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il famigerato D.A.P., che a quanto pare è un incarico molto conteso, e non certo per via della alquanto lauta retribuzione. Il mondo del carcere è una società parallela, il lato oscuro di una democrazia, il “deep state”. Da esso si può influire anche in modo determinante sulle sorti di questa democrazia, dato che vi si possono raccogliere informazioni sensibili da parte di detenuti eccellenti, in primis i mafiosi blasonati che hanno intrattenuto rapporti con la politica e le istituzioni, sia che decidano di “collaborare” ufficialmente o solo informalmente. Ecco che la nomina del capo del D.A.P. diventa un tassello strategico negli equilibri tra magistratura di potere e politica.

Tuttavia apprendiamo, dall’ultima guardasigilli di rango costituzionale ed insieme accademico, che con le violenze perpetrate nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere si sarebbe tradita nientemeno che la “Costituzione”. A parte il fatto che la povera Costituzione non sa neppure più quante volte al giorno – centinaia, migliaia – viene puntualmente tradita dai funzionari pubblici, tanto più alta è la loro posizione, a cominciare da quella accademia che la viola impunemente. Per questo appare sommamente ipocrita invocare la Costituzione di fronte a fatti di violenza indicibili, conseguenza di quella barbarie istituzionale che consente di detenere le persone in luoghi che talvolta non sono idonei ad ospitare il bestiame. Con buona pace della rieducazione e dei bei principii che rimangono sulla Carta.

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