L’uomo di Buridano

di Salvatore Fiorentino © 2021

Quando qualcuno pensa di essere più intelligente degli altri, spesso non lo è. Quando addirittura afferma di esserlo è certo che non lo sia. Si tratta di un atteggiamento tipico di chi vede la realtà solo coi propri occhi, senza mai riuscire a spostare il punto di osservazione simultaneamente, così da acquisire una visione quanto più possibile panoramica, l’unica che permette di svelare le illusioni ottiche e i miraggi della razionalità. La massima conoscenza si acquisisce, infatti, quando le due modalità del pensiero, razionale e irrazionale, entrano in risonanza, permettendo all’intuizione emotiva e alla deduzione volitiva di integrarsi vicendevolmente, amplificando la capacità cognitiva oltre la soglia della “normalità”. Sicché un pensare educato e disciplinato eccessivamente sul versante della logica ferrea si troverà a disagio nell’affrontare situazioni impreviste o paradossali, sino all’estremo della paralisi.

Ecco che chi si crede iper intelligente, mentre è solo iper razionale, finisce per seguire la fine del famigerato asino di Buridano, che perisce perché non è capace di decidere tra due alternative, siano esse equidistanti o agli antipodi rispetto ad un data scala di valori. Così, nel disprezzare chi sceglie il rosso e nel deridere chi invece preferisce il nero, l’uomo di Buridano rimane incolore, trasparente, invisibile. Si condanna all’irrilevanza, lasciandosi risucchiare dal vortice dell’inazione, proiettando le responsabilità di questa impasse, aspettando – talvolta pretendendo – che sia la “società civile” e comunque “l’altro” a dover creare le condizioni per il suo successo, che ritiene gli sia stato denegato ingiustamente, trovandone consolazione nel volontario esilio intellettuale, nell’infliggersi la prigionia di un repertorio élitario, popolato da luoghi comuni e figure emblematiche da aggredire con furia iconoclasta.

Non si tratta, evidentemente, di un incapace, rinunciatario, disinteressato, votato all’eremitaggio o all’ascesi. E’ invece qualcuno che ha smarrito il tempo e non se ne rende conto, dato che resta indifferente all’incessante scorrere dei granelli di sabbia che lo separano dalla fine ineluttabile della sua stessa esistenza, rinviando ogni decisione a data da destinarsi, ad un perenne venturo domani sul quale non brillerà mai il sole. Sicché si nutre di una speranza già morta, ma che gli appare viva grazie all’annichilimento della prospettiva temporale che ben si assortisce con il rigore logico elevato all’ennesima potenza, da cui discende l’impellenza, a tratti maniacale, alla catalogazione e all’incasellamento del prossimo entro schemi rigidi e preordinati. E’ una condizione surreale che, del resto, ha trovato celeberrime rappresentazioni nel teatro (“Aspettando Godot”) e nella letteratura (“La coscienza di Zeno”) del Novecento.

L’uomo di Buridano, a differenza dell’asino omonimo, ammazzando il tempo ha conquistato l’immortalità in una vita che però non è mai vissuta. Per non morire sceglierebbe di non nascere, per non perdere preferisce non giocare, nel timore di non arrivare finisce per non partire, per paura di non saper volare non apre le ali. Come una singolarità dell’universo, è rimasto incagliato in uno spazio tra il sempre e il mai. Per questo è convinto di aver capito tutto e di non dover mai cambiare opinione, come chi crede di avere sempre ragione, mentre soffre ad essere circondato da chi non ha la stessa percezione, da chi, anche illogicamente ma umanamente, decide di rivedere le proprie convinzioni, perché questo detta lo scorrere vitale dell’esistenza, il continuo sorgere e tramontare dei giorni che passano, il che è una ri-generazione, un di-vertimento, una dis-locazione, una re-visione.

L’uomo di Buridano siffatto incarna l’antitesi del cambiamento, della trasformazione, della metamorfosi. E’ granitico, roccioso, pesante, pedante, mai originale o sorprendente, ma ridondante e prevedibile, schematico, monolitico. In politica è un conservatore, con tendenze fascistoidi, perché non tollera i quartieri degradati, i clochard, i migranti, non tanto per ideologia o disumanità, quanto perché disturbano il quieto vivere di quel mondo a quadretti bianchi e neri dove si è rinchiuso, che finisce per assomigliare ad un cruciverba dove tutto è prestabilito, programmato. E chi osasse scrivere una parola dissonante in questo modello di vita prestampato dovrà attendersi la reazione irata, sproporzionata, perché ne è stato minacciato l’ordine fisso e immutabile, che non ammette alternative, dove lo spazio-tempo si è schiacciato sullo spazio, essendo stato espulso il tempo, ciò che distingue l’essere umani.

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