di Salvatore Fiorentino © 2021
Rino Nicolosi, presidente della Regione Siciliana dal 1985 al 1991, è stato certamente un esponente politico che ha cercato di cambiare la Sicilia sulla base di due fondamenti tra loro strettamente connessi: dare risposta alla domanda di lavoro, anche per prosciugare il bacino altrimenti destinato alla devianza, e nel contempo garantire la formazione dei lavoratori perché si migliorassero la qualità e quindi la produttività e la competitività isolana nei confronti delle realtà più avanzate, in Italia ed in Europa, puntando in primo luogo al potenziamento delle grandi infrastrutture siciliane, quale precondizione di sviluppo. E diverse furono le realizzazioni durante il governo Nicolosi. Tutto ciò secondo un modello di economia mista, pubblico-privata, che si ispirava a quella tradizione cattolico-sociale che aveva consentito all’Italia, durante la cosiddetta “prima repubblica”, di compiere la ricostruzione dopo le macerie ereditate dal fascismo.
Il 15 maggio 1990, Nicolosi ribadisce questa sua visione durante la conferenza stampa a Palazzo d’Orleans in occasione del 44-esimo anniversario dell’autonomia siciliana, pochi giorni dopo la barbara uccisione del funzionario regionale Giovanni Bonsignore, che aveva avanzato rilievi sulla gestione dell’agroalimentare e sull’erogazione di un finanziamento ad una cooperativa di Palma di Montechiaro in odor di mafia. Siamo alla vigilia di “Tangentopoli”, per un verso, e della stagione delle “stragi politico-mafiose” per un altro. Si realizzerà la profezia di Gramsci, secondo cui “Il cattolicesimo democratico fa ciò che il socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida …“. Anche se, a ben vedere, non si tratterà di un suicidio, bensì dell’esecuzione di un piano preordinato, deciso da quei poteri atlantici che hanno sempre considerato la Sicilia come avamposto strategico nel Mediterraneo, tra Europa, nord-Africa e Medio Oriente.
I beneficiari di questo “suicidio” dovranno essere gli eredi del PCI. Ecco che la magistratura improvvisamente scopre che il sistema nazionale si basa sul finanziamento illecito ai partiti, attraverso i “contributi” elargiti dalle grandi imprese che si spartiscono la torta degli appalti pubblici. L’inchiesta “Mani pulite” fa collassare il pentapartito di governo, i cui leader sembrano indifesi e increduli, disarmati. Il più coraggioso è Craxi, che ammette in un parlamento raggelato che non c’è niente di nuovo sotto il sole, “così fan tutti”, compresi i comunisti, che anzi ricevevano soldi anche dall’URSS, i quali però non vengono neppure scalfiti dall’azione dei magistrati, preparandosi a capitalizzare questa apparente “diversità” in consenso elettorale per la presa del potere nel Paese. In questo tornante “storico”, deflagrano le stragi di Capaci e via D’Amelio nel 1992, seguite da quelle a Firenze, Roma e Milano, nel 1993.
Il 15 gennaio 1993, Gian Carlo Caselli, amico e sodale di Luciano Violante, ossia il profeta della conquista del potere per via giudiziaria (e antimafiosa), si insedia come procuratore di Palermo, nello stesso giorno in cui viene catturato Salvatore Riina. Ma l’obiettivo di Caselli era Andreotti, ultimo baluardo della “prima repubblica”, tanto è vero che fu “dimenticata” la perquisizione del “covo” del capo dei capi. Il boss risiedeva a Palermo, nell’appartamento di un tale ingegnere Montalbano, figlio di un dirigente del PCI siciliano, che sarebbe stato nelle grazie di Pino Lipari, consigliere di Bernardo Provenzano, per questo aggiudicandosi cospicui appalti, a dire del boss “ministro dei lavori pubblici” Angelo Siino. Del resto, le dangerous liaisons del PCI siciliano erano ben note a Pio La Torre, sin da quando voleva radiare dal partito il “compagno” Antonino Fontana, socio dell’ingegnere Montalbano. Ma non fece in tempo.
Nel 1997, Rino Nicolosi, ormai fuori dai giochi e gravemente malato (morirà nel 1998), decide di rivelare ai magistrati la verità sul sistema degli appalti pubblici in Sicilia, presentando un memoriale manoscritto. I riferimenti alla mafia sono sfumati, ma appare assai eloquente quello al suddetto boss Angelo Siino. L’attenzione si concentra sui “collettori” di tangenti che riguardano tutti i partiti, compreso il PCI, di cui anzi evidenzia il sistema delle “coop rosse”. Vengono citati nomi e cognomi per ciascuna compagine politica, nonché le imprese di riferimento. Ma non risulta alcun seguito, né presso la procura di Catania dove Nicolosi depositò il memoriale, né presso quella di Palermo, competente per territorio, diretta da Caselli. La stessa presso cui i sostituti Scarpinato e Lo Forte avevano chiesto il 13 luglio 1992 l’archiviazione dell’indagine “Mafia e appalti” che Paolo Borsellino avrebbe voluto approfondire.