di Salvatore Fiorentino © 2021
Il primo presidente della Repubblica siciliano. Forse doveva essere Piersanti, ma invece, gioco del destino (come si dice, “cinico e baro”), è stato, più modestamente, Sergio. Alla fine del mandato di costui non siamo soddisfatti, non possiamo esserlo, né da siciliani né da italiani, né da europei, né da cittadini del mondo. Non ci sentiamo rappresentati, né garantiti, da questo presidente uscente, così come ci è apparso inadeguato il suo predecessore, Giorgio Napolitano, primo capo dello Stato ex comunista, ancorché “migliorista”, ossia tra i più a destra del PCI, quelli graditi agli USA. Possiamo e dobbiamo dirlo, se è vero che siamo in “democrazia” (e qui il dubbio è legittimo), se è vero che la Costituzione è ancora viva e non solo una scartoffia impolverata da declamare e piegare alla convenienza del momento (e qui il dubbio rasenta la probabilità). Ma, forse, non c’è mai stato un vero presidente dei cittadini, perché non ne hanno mai consentito l’elezione.
Serve sempre un re travicello per eterodirigere la Repubblica. Non si sa mai, il peggio è dietro l’angolo, meglio accontentarsi di una parvenza di democrazia, dei buoni propositi, dei bei principi, delle vaghe idealità, dei discorsi grondanti di belle parole, ma solo quelle. I fatti sono altri e altrove, meglio non disturbarne il sonno atavico. Che occorre perpetuare, con la narcotizzazione del popolo, sicché sia indotto all’assuefazione, all’oblio, ossia le premesse per la rassegnazione e la sottomissione, financo per la “sindrome di Stoccolma”. Non è credibile un politico che dopo anni di militanza di parte – DC, PSI o PCI poco importa – si faccia eleggere come giudice della Corte Costituzionale. Una volta non si usava, ma poi i costumi della Repubblica hanno accusato un cedimento, una vistosa smagliatura, il che ha contribuito ad alimentare la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, in primis quelle di garanzia, quelle cosiddette di “rango costituzionale”.
E come può essere credibile quello stesso politico che, prima militante di partito, poi giudice costituzionale, venga eletto presidente degli italiani? Contano i fatti, vero. E quali sono i fatti che hanno contraddistinto il settennato ormai alla fine di Sergio Mattarella? Come dimenticare il passepartout generosamente concesso senza fiatare alle spericolate acrobazie di Matteo Renzi quando voleva scardinare la Costituzione a colpi di fiducia in un parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale? Solo il popolo ha salvato la Costituzione con un secco 70% di NO, al referendum confermativo di una “riforma” che definire “eversiva” è dir poco. Dov’era Mattarella? Non pervenuto. E poi nel 2018. Il M5S è il primo partito, avendo conquistato la maggioranza relativa col 33% dei consensi alle urne. E cosa fa Mattarella? Si presenta agli italiani col governo tecnico di minoranza, conferendo l’incarico ad un oscuro signore privo di alcuna legittimazione, tale Carlo Cottarelli.
Solo la minaccia di impeachment, avanzata da un Di Maio a quel tempo ancora sintonizzato sui principi fondanti del Movimento Cinque Stelle, ferma l’ennesimo vergognoso esproprio di democrazia ai danni dei cittadini elettori, quelli stessi che la Costituzione, questa disconosciuta, indica come popolo sovrano. Anche se l’ingerenza di Mattarella prosegue imperterrita nel veto, tutto politico, opposto contro il ministro all’economia designato, il professor Paolo Savona, che difatti viene successivamente spostato in un dicastero di secondario rilievo, nominato ministro per gli affari europei. Sicché nella formazione del governo dopo le elezioni del 2018, Mattarella ha esercitato le prerogative proprie del ruolo di presidente della Repubblica secondo la Costituzione, oppure ha debordato dai compiti affidatigli dalla Carta? Ai posteri l’ardua sentenza. Ma non è finita qui. Mattarella è ancora il deus ex machina del governo Draghi, cosiddetto delle “larghe intese”.
Ed è un governo che sembra trarre la propria legittimazione più dal mandato del Quirinale che dalla fiducia del parlamento, ormai ridotto ad organo ratificatore. Draghi è il nuovo uomo della provvidenza, il nuovo osannato “duce”. Come tale è ritenuto infallibile e va sostenuto a spada tratta. Anche se le evidenze dei fatti sembrano dargli torto negli esiti della lotta alla pandemia, obiettivo principale di siffatto gabinetto. E così non è possibile metterlo in discussione, neppure sulla vergognosa “riforma” della giustizia promossa dall’ex presidente della Consulta. A difenderlo scende in campo lo stesso Mattarella, che non esita a violare il basso profilo che si addice al semestre bianco. L’aria che tira è così “regimentata” che non appena un leader politico osa contraddire le scelte del “manovratore”, ecco che viene assalito da un fuoco incrociato, tra virologi di dubbia fama, leader politici “democratici” e “compagni” di partito più realisti del Re. Adieu.