di Salvatore Fiorentino © 2021
E’ più pericoloso un dittatore che si presenta come tale o quello che invece si maschera da democratico, persino da illuminato progressista? La risposta è in re ipsa. Ma qual è lo strumento privilegiato da coloro che si sentono, o vogliono essere, sino a divenirlo talvolta, i “Padroni d’Italia”? E’ un giornale sopra tutti, il famigerato “Corriere della sera”, che ha sempre condizionato, o quanto meno tentato di farlo, l’andamento socio-politico-economico del Belpaese, lasciando il sufficiente spazio a quei giornalisti che dopo essersi illusi di lavorare per un editore liberale finivano per sbattere la porta (o essere sbattuti fuori da essa), sino al punto da fondare altre testate, dando invece carta bianca a quegli altri che per sopperire alla carenza di talento professionale offrivano la loro astuzia di imbonitori dalle sembianze inoffensive e persino paciose, per inoculare nell’opinione pubblica ciò che era gradito ai “Padroni”, pazienza se poi il giornale era più gadget che articoli e notizie.
Il “Corriere della Sera” ad un certo punto, tra i ’70 e gli ’80, era nelle mani di Licio Gelli e Roberto Calvi, e non va certo dimenticata la famigerata intervista “in ginocchio” di Maurizio Costanzo (si proprio lui, quello che poi faceva le “maratone antimafia” dalle TV di Berlusconi) allo stesso Licio Gelli, nella quale il “venerabile” illustrava il suo progetto politico di “rinascita” dell’Italia, tra cui contemplava l’abolizione del servizio pubblico radiotelevisivo e il controllo dei principali giornali. E’ chiaro che ai “Padroni” parole come democrazia, popolo, libertà hanno sempre procurato fastidiose reazioni allergiche, se non veri e propri shock anafilattici. Un altro periodo memorabile del “Corsera” fu quello in cui si alternavano due esemplari insuperati di cinismo mellifluo come Paolo Mieli (nomen omen) e Ferruccio De Bortoli. Ancora oggi vagano per i talk show più gettonati per colpire con le loro frecce di zucchero alla cicuta, sempre mirate a servire la afona voce dei “Padroni”.
A conquistare il “Corriere” hanno provato in tanti, compreso l’improbabile parvenu Stefano Ricucci, che difatti fu subito arrestato (in tutti i sensi). C’è sempre un limite, e i “Padroni d’Italia” ci tengono allo stile. Anche se i tempi cambiano ed oggi il più prestigioso quotidiano italiano è finito nelle mani di uno che lo stile non se lo può dare, per dirla con quel Manzoni che di lettori ne aveva solo venticinque, uno che già dal nome appare agli antipodi del british understatement: Urbano Cairo, patron de “La 7”. Quasi un redivivo Sedara, con gli occhietti piccoli e scuri che succhiano tutto ciò che gli gira attorno, uno che si è formato nelle aziende di Berlusconi, acquisendo rapidamente i fondamenti del mestiere, come dimostra la condanna definitiva per appropriazione indebita, fatturazioni fittizie, falso in bilancio. Ma non avendo preteso, come il Cavaliere, di scendere in politica, non è stato oggetto delle stesse attenzioni giudiziarie riservate al “Caimano”.
Dopo tante peripezie tra alti e bassi, oggi il Corriere, diretto da un ex “compagno” della FGCI allevato a “L’Unità” da Emanuele Macaluso e Walter Veltroni (non ci sono paragoni), sembra divenuto l’house organ del nuovo dominatore, Mario Draghi. Ovviamente, l’attuale amministratore delegato della Repubblica Italiana, non è che l’interfaccia con i veri “Padroni”, quelli che stanno sempre dietro le quinte a tirare i fili. E’ un personaggio costruito e rodato per decenni nelle istituzioni bancarie di tutto il mondo, per recitare il copione che gli viene fornito: i responsabili del casting hanno deciso che serviva un “duro” per guidare il Paese attraverso la pandemia, perché era il momento propizio per realizzare tanti “colpi di mano” da tempo agognati, ma mai concretizzati, da ultimo preclusi da quegli “incompetenti” dei Cinque Stelle, che avevano osato vincere le elezioni del 2018 per conto del “popolo sovrano”, causando lo sconcerto dell’establishment “italico” e “europico”.
E sconcerto ha provocato, anche presso la stampa di destra, un recente articolo (riportato appresso) di un editorialista di punta del “Corrierone”, tale Massimo Franco, uno che certamente la sa lunga per essere membro del “International Institut for Strategic Studies”, un istituto di ricerca britannico nel campo degli affari internazionali che si definisce come “massima autorità mondiale sul conflitto politico-militare”. Franco (anche qui nomen omen) dice senza troppi giri di parole che la “politica” deve capire la lezione, una volta per tutte, proprio grazie all’esperienza del governo Draghi, di cui si auspica che possa costituire non più l’eccezione ma la “regola”. Ossia uno stato di emergenza permanente (la causale si trova di volta in volta, oggi il Covid, domani la questione climatica) che “sospenda” la “democrazia”, dispendiosa e inutile perdita di tempo, per instaurare qualcosa di ibrido tra un regime autocratico e un fondamentalismo liberista, dove si rende conto solo ai “Padroni d’Italia”.
GOVERNO E PARTITI: CAMBIO DI GIOCO
L’ipotesi che l’eccezionalità sia destinata a durare a lungo va osservata con cautela. Anzi, c’è da sperare che le forze politiche comprendano fino in fondo l’opportunità offerta da questa fase, affinché si chiuda senza ulteriori rischi per il futuro del Paese
Mario Draghi sta definendo il rapporto tra il proprio governo e i partiti in un modo che potrebbe far pensare a un rimodellamento delle gerarchie istituzionali: con Palazzo Chigi in un ruolo quasi «tolemaico», e il sistema politico e parlamentare impegnati in un dibattito animato ma anche separato dalle sorti dell’esecutivo. In realtà, questa apparente scissione tra premier e maggioranza che lo sostiene dipende dalle condizioni eccezionali che hanno portato alla formazione di una coalizione vicina all’idea di unità nazionale. Di più: ne è la premessa. E, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire soprattutto a tracciare sfere di competenza e di influenza distinte tra i vari protagonisti, dopo la confusione e gli sconfinamenti degli ultimi decenni e anni.
Draghi è il garante di questa riscrittura delle regole e degli ambiti, senza invasioni di campo, che riflette una visione delle istituzioni cara al capo dello Stato, Sergio Mattarella. Sotto questo aspetto, è veramente un presidente del Consiglio trasformativo, e non solo nella proiezione esterna dell’Italia in Europa. Rappresenta un’occasione di rinnovamento, e non di frustrazione e di irrilevanza, per le stesse forze che lo sostengono.
Prima o poi, la sorte del premier e quella degli alleati torneranno a incrociarsi: per le elezioni al Quirinale e anche prima e dopo. L’ipotesi che l’eccezionalità sia destinata a durare a lungo va osservata con cautela. Anzi, c’è da sperare che i partiti comprendano fino in fondo l’opportunità offerta da questa fase, affinché si chiuda senza ulteriori rischi per il futuro del Paese.
Finora, seppure con scarti e contraddizioni, hanno mostrato senso di responsabilità. Si sono associati con forze agli antipodi per una causa che, sebbene l’aggettivo possa suonare altisonante, appare nobile; comunque obbligata. Se riescono a mantenere questa consapevolezza, sarà un vantaggio per tutti. Lo sarà in primo luogo per un sistema che ha un tremendo bisogno di rilegittimarsi; e di accompagnare una ricostruzione del Paese che chiama in causa anche i partiti, la loro identità e una visione meno ancorata alla propaganda e a un effimero calcolo elettoralistico. È il solo antidoto contro i richiami potenti e illusori della demagogia. Alcune affermazioni perentorie di Draghi sul ruolo del governo e quello dei partiti possono essere apparse quasi liquidatorie.
Ma forse vanno lette come un richiamo a fare ciascuno la propria parte, senza sovrapporre i piani e le competenze; e rinunciando alla tentazione di forzare strumentalmente una situazione che al momento non può e in qualche misura non deve subire deragliamenti. È possibile che qualcuno veda nell’esecutivo una sorta di esperimento: il laboratorio di una progressiva separazione tra chi decide e chi alla fine, dal Parlamento ai partiti, dovrebbe limitarsi ad assecondare quelle scelte. Ma sarebbe un esperimento rischioso e destinato al fallimento; foriero di altre forzature, di altre scorciatoie, e di nuovi e vecchi populismi che hanno portato al commissariamento della politica, senza risolvere nessun problema. Meglio guardare in faccia la realtà.
Quanto sta avvenendo racconta un’Italia che, forse per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, può cominciare a capire come in questi anni sia stata orfana di quell’equilibrio; e come abbia cercato di ritrovare un baricentro, senza riuscirci. L’esperienza e il profilo di Draghi, i suoi collegamenti internazionali, l’apertura di credito della Commissione europea sono altrettante possibilità di accompagnare questa ricerca; di arrivare a nuovi equilibri; e alla fine perfino di contribuire a modellarli e non a subirli. Farlo con un retropensiero di paura, o di voglia di rivalsa, vorrebbe dire assecondare chi ritiene impossibile un recupero su nuovi presupposti. I riflessi del passato non aiutano nessuno, né nel governo né nei suoi interlocutori. Prenderne atto significa rivendicare il proprio ruolo politico, non rinunciarci.
(articolo apparso su “Corriere della Sera”, 3 settembre 2021)