di Salvatore Fiorentino © 2021
Per capire se un maestro è un “cattivo maestro” basta verificare se, quale allievo prediletto, sceglie un “utile idiota”. In tal caso lo userà per raggiungere i suoi scopi, in un rapporto tra ventriloquo e pupazzo. Quest’ultimo si sentirà inebriato da tanta considerazione, sino a credere di essere veramente meritevole, ossia davvero capace di ricoprire ruoli importanti. Come quello del ministro della salute nel corso di una pandemia globale che rischia di compromettere la stessa democrazia oltre che la coesione sociale in un paese dai mille talenti, ma strutturalmente fragile come l’Italia, croce e delizia dell’Europa e dell’occidente. I Romani ritenevano che il destino di un uomo fosse già segnato nel nome (nomen omen): e come negarlo, nel caso del giovane ed inesperto ministro, Roberto Speranza, passato dal ruolo di assessore all’urbanistica della città di Potenza, ricoperto dal 2009 al 2010, a quello di responsabile di un dicastero tra i più importanti, nominato per ben due volte (Conte II, Draghi)?
Qualcuno non si spiega come mai un insignificante esponente di un altrettanto insignificante forza politica (tanto nel parlamento che nel Paese), Liberi e Uguali, possa essere ancora il ministro della salute in carica, nonostante i risultati oggettivamente disastrosi della gestione della pandemia in atto (l’Italia è il paese che nel mondo ha il più elevato numero di decessi in percentuale alla popolazione), con gravissime ombre sulla oscura vicenda del piano pandemico mai aggiornato che ha avuto ripercussioni internazionali sino a far vacillare i vertici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.), compreso il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus (a proposito di nomen omen). Si tratta di un ministro che ha oggettivamente avallato misure gravemente restrittive delle libertà costituzionalmente protette, ultima quella del “super green pass” che ha introdotto surrettiziamente un obbligo vaccinale allo stato non legalmente ammissibile in Europa.
Ma siccome è noto che il diavolo (si chiami pure Massimo D’Alema, sebbene in questo caso il “baffetto” nostrano è solo un ingrigito comprimario in cerca di vanagloria nello scenario globale) è un abile costruttore di pentoloni ribollenti ma immancabilmente senza coperchio, c’è chi ha capito il motivo per cui un ragazzotto potentino di bella Speranza occupi, qualsiasi governo cambi (del “cambiamento” o no), un ruolo così strategico in un momento così eccezionale. E’ il perfetto lupo travestito da agnellino, conformemente al logo della “fondazione” anglosassone (un centro di potere di rilievo internazionale, molto simile ad un’associazione massonica) che si chiama “Fabian Society”, il cui nome deriva da quello di Quinto Fabio Massimo (ma stavolta D’Alema non c’entra), passato alla storia come il “Temporeggiatore”. La “Fabian Society”, così come la fondazione di D’Alema “ItalianiEuropei”, confluiscono nella “Foundation for European Progressive Studies”.
Dalla “Fabian Society” provengono tutti gli esponenti di massimo rilievo dei laburisti inglesi del passato (Tony Blair, Gordon Brown, Jeremy Corbin) e del presente (Keir Starmer). “Fabiano” è anche l’attuale sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan. Non pare quindi un caso che il cugino inglese di Roberto Speranza (che è italiano di padre e inglese di madre) sia stato stretto collaboratore dell’ultimo premier laburista (Gordon Brown). La filosofia della “Fabian Society”, a cui hanno aderito anche personalità come John Maynard Keynes, George Bernard Shaw, Virginia Woolf, George Orwell, solo per citare i più noti al grande pubblico, è quella di una visione ad un tempo fortemente élitaria e collettivista, che propugna un cambiamento graduale della società in antitesi alle visioni “rivoluzionarie”, tra cui quella marxista, verso una prospettiva “socialista”, perseguendo un ordine mondiale “tecnocratico” che possa guidare le masse popolari ritenute incapaci di autodeterminarsi.
Ma, diversamente dai quanto mostrano di temere alcuni osservatori contrari alle tesi “neo-keynesiane”, le mire del governo Draghi, così come dei “fabiani”, non sembrano affatto andare nella direzione della tutela degli interessi dei lavoratori e delle fasce deboli ossia, in una parola, del “popolo”. Al contrario, il paradigma “tecnocratico” viene ora declinato nella direzione del progressivo depauperamento dei lavoratori dipendenti e dei piccoli e medi imprenditori e professionisti, tanto in termini di tutele che in senso strettamente economico, e ciò a tutto vantaggio della “grande impresa” ormai refrattaria ad assumere un ruolo effettivamente “produttivo”, avendo questa ripiegato da anni sugli investimenti finanziari e financo speculativi, il che ha comportato un deficit strutturale sotto il profilo occupazionale e retributivo, facendo dell’Italia uno dei fanalini di coda dell’Unione Europea, laboratorio ideale per sperimentare un’involuzione autoritaria.
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