Il candidato

di Salvatore Fiorentino © 2022


Roberto (Maria Ferdinando) Scarpinato, sino a qualche mese fa procuratore generale a Palermo, ha accettato la candidatura alle prossime elezioni politiche del 25 settembre 2022 per il Movimento Cinque Stelle, con un posto che, secondo il gergo dei politici di questa epoca, è “blindato”, ossia tale da garantirne l’elezione a prescindere dal consenso ottenuto. Scarpinato, intervistato in merito, ha risposto che non è stato lui a cercare il M5S, rivelando di essere stato invece sollecitato dalla formazione guidata da Giuseppi Conte, quella con lo statuto “seicentesco”. E, in effetti, Scarpinato appare attagliato per questa ambientazione storica, possedendone innegabilmente le physique du rôle. Assolutista in certe prese di posizione, come quel Carlo I, re d’Inghilterra, a cui il gioco della memoria inconsciamente (e qui si apre un’autostrada digitale per i retropensieri dei freudiani) lo accosta per quella vaga rassomiglianza col celebre ritratto (1635) “uno e trino” di van Dyck.

Ma dire o pensare che Scarpinato sia (stato) un magistrato, per quanto illustre, è dire poco o niente. Egli è (stato), piuttosto, un fine pensatore, un vero filosofo del diritto (pare che negli ambienti giudiziari, ai tempi di Falcone e Borsellino, fosse soprannominato, non si sa se con tono elogiativo o irridente, con l’appellativo di “Schopenhauer”), poi specializzatosi in “antimafia”, nel momento in cui questa “disciplina”, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, divenne alla moda, così come, più recentemente, lo è divenuta l’onestà secondo i pentastellati. Si può apprezzare ciò leggendo le sue monumentali richieste di archiviazione, tra le quali spiccano senza dubbio quelle su “Mafia e appalti” (1992) e “Sistemi criminali” (2001), ma ancora di più scorrendo le righe della sua pregevole opera “Il ritorno del Principe” (2008). Ed ora, cessato dal ruolo di magistrato per sopraggiunti limiti anagrafici, dichiara di scendere in politica “contro il ritorno dei patti tra Stato e mafia”.

Come per ogni pensatore, è possibile scorgere un leitmotiv nell’attività, passata e presente, dell’ex procuratore generale di Palermo che pare destinato a proseguire senza soluzione di continuità nel futuro ruolo di parlamentare: la politica (quella di una certa parte ritenuta non frequentatrice della legalità e dell’onestà come invece la sinistra e, oggi, il M5S) è tendenzialmente “deviata”, stabilendo un pactum sceleris con il malaffare (una sorta di figura mitologica, descritta come il coacervo di associazioni a delinquere di stampo mafioso, massoneria degenerata e schegge dell’eversione nera) per il raggiungimento, il mantenimento e l’ampliamento del potere per il potere. Questo leitmotiv, tuttavia, è lo stesso che sembra nei fatti aver caratterizzato la “politica giudiziaria” della procura di Palermo nel post stragi dei ’90 (ed esportata presso quasi tutti gli altri distretti siciliani con la progressiva promozione di pm palermitani nel ruolo di procuratore capo).

Ecco che, secondo questa “filosofia”, tutto ciò che promana da una certa parte politica è conseguentemente meritevole di indagine e di condanna giudiziaria, mentre sulla parte ritenuta a priori sana e virtuosa non c’è neppure motivo di spendere parimenti attenzione e risorse perché si può ragionevolmente pre-vedere che nulla di rilevante potrà rinvenirsi nel suo operato, e semmai fossero integrate delle condotte debordanti dall’osservanza formale delle leggi esse sarebbero con ogni probabilità dirette al raggiungimento di finalità generali d’utilità sociale, scriminando di fatto ogni rilevanza penale delle stesse, potendosi al più ritenere responsabilità amministrative e politiche. Deve a questo punto eccepirsi che proseguendo in una siffatta Weltanschauung si cadrebbe, mutatis mutandis, in quell’assolutismo strabico che condusse il predetto Carlo I a scatenare la guerra civile e ad essere il primo monarca condannato alla pena capitale con la sentenza di un tribunale.

E’ quindi evidente che l’ultraventennale contrasto – su questioni scottanti come “mafia e appalti” e “trattativa Stato-mafia” – tra il ROS dei Carabinieri (comandato da Mario Mori) e i pm palermitani aderenti alla dottrina sopra delineata scaturisca da una divergente interpretazione del ruolo e delle finalità del potere giudiziario. Con quest’ultimo che non può giammai divenire “sostitutivo” o “moralizzatore” di quello politico, dovendo invece perseguire (senza filtri ideologici) i reati previsti dalla legge vigente, la cui responsabilità è personale, sciogliendo ogni legame con l’eventuale ruolo istituzionale ricoperto. Sicché la domanda da rivolgere oggi al candidato Scarpinato è: al di là dell’archiviazione (del 14 agosto 1992) di uno stralcio dell’indagine “mafia e appalti”, perché non si ritenne di approfondire sull’impresa “Rizzani de Eccher” che, come noto anche ai profani, era appaltatrice di ingenti commesse in Unione Sovietica, verosimilmente per conto del PCI?

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