di Salvatore Fiorentino © 2022
Ad un mese dalla data fatidica delle elezioni nazionali post pandemia, la politica italiana è divenuta un pandaemonium, per dirla con John Milton, che nel Paradise Lost coniò il termine, in antitesi a quello di pantheon, per definire il palazzo edificato da Satana. Non che la politica dello stivale fosse priva di demoni, ma mai si era raggiunto un simile marasma, con deputati e senatori uscenti disperatamente alla caccia di un seggio sicuro, neppure fosse il Titanic senza scialuppe per quelli della classe ridotta che iniziano a sentire la sgradevole sensazione del venir meno della dorata poltrona sotto il loro augusto postergo. E poi ci sono gli scappati nottetempo, come i Di Maio & Partners, ora in un vicolo cieco e costretti a chiedere ospitalità al PD, che pur di raccattare qualche voto apre le porte a tutti, mentre chiude i portoni ai promessi sposi del M5S, rei di aver causato le dimissioni anticipate del governo dei “migliori”, di quel Draghi che non vedeva l’ora, già in caduta libera di credibilità e consensi.
Sicché, più che una maionese, questa poltiglia politica – ormai alla frutta per tutti i gusti – assomiglia sempre più ad una variopinta macedonia impazzita, con i partiti e i movimenti, che nascono e muoiono in un sol giorno, non altro che pezzi senz’arte né parte di questa indigesta accozzaglia di sapori e colori, senza che se ne possa distinguere nessuno. Si va dal nero-azzurro del centrodestra al bianco, giallo, rosso e verde del centro sinistra, quest’ultimo più variegato del primo ancora fondato sul collaudato “tridente” formato da post-fascisti, leghisti e forzitalioti. Poi ci sono le formazioni minori, come l’arcobalenata Unione Popolare, che presentano programmi con punti che sarebbero persino scontati se si fosse applicata, nei settantacinque anni in cui è in vigore, la Costituzione, invece che marciare nella direzione opposta a colpi di riforme incostituzionali e smantellamento progressivo delle fondamenta della Repubblica: sanità, lavoro, istruzione, giustizia.
Adesso tutti promettono che se otterranno il voto realizzeranno il cambiamento, le riforme di ogni tipo e misura, la giustizia sociale per i poveri e diseredati (da loro stessi), la lotta al malaffare e persino alla mafia (tra un patto e l’altro), ossia tutto quello che avrebbero dovuto e potuto realizzare (almeno in parte) già da quando sono al governo, ossia da sempre, visto che da almeno tre legislature la giostra gira con gli stessi protagonisti. E adesso tutti si strappano i capelli e inondano l’elettorato con lacrime di coccodrillo per gli aumenti incontrollati dei prodotti energetici, come se non lo si potesse prevedere quando, con il peraltro controproducente (per la pace) invio di armi all’Ucraina, si è di fatto dichiarata guerra alla Russia, perché “ce lo chiedeva l’Europa (in verità gli USA)”. Se questo è livello delle leadership (tutti compresi e nessuno escluso) che questo Paese è riuscito ad esprimere, allora c’è un grave problema che non appare risolvibile.
Se poi il “migliore” dei “migliori”, il neoliberista monetarista attuale presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, il quale ha dedicato la sua vita all’Euro (“whatever it takes”), nonostante il pressoché unanime sostegno politico, mediatico e istituzionale di cui è stato generosamente beneficiato, non ne ha imbroccata una giusta, a cominciare dalla assurda gestione sanitaria della pandemia in cui l’Italia vanta il triste (ma non per l’INPS) primato dei morti “in vigile attesa”, portando sull’orlo del collasso le piccole e medie imprese e i cittadini delle fasce meno abbienti ancorché titolari di un rapporto di lavoro, allora i grandi poteri “forti” ed “occulti” hanno puntato male le loro ricche fiches, confermando che la speculazione finanziaria è non altro che farina del diavolo destinata a finire in crusca, senza che Belzebù sappia costruire i coperchi ai pentoloni ribollenti della sua malvagità, nella quale, come insegna la storia, è destinato a finire e a perire pazzo e disperato.
La morale della favola è che ci ritroviamo con una ranocchia (politica) che si crede un cigno leggiadro (alla stregua di una Segolene Royal, altro che Marine Le Pen), sulle ali del 25% delle intenzioni di voto (senza contare il primo partito: gli astenuti), alla quale fa il verso un ranocchio (politico) che conosce bene l’Italia come uno che ha vissuto più in Francia che nel Belpaese, accademico per tradizione familiare con parentele importanti (da Gianni Letta ad Antonio Gramsci), oggi incredulo in cuor suo del 23% che i benevoli sondaggisti gli attribuiscono, consapevole di essere l’incarnazione del vuoto e dell’inconsistenza (politica), sicché non gli resta altro che agitare i fantasmi di un passato ormai morto e sepolto, privo della più pallida idea di come affrontare un presente e un futuro che invece inquietano gli italiani, ormai abbandonati a sé stessi in questa nave alla deriva, con troppi aspiranti comandanti e nessuno titolato. E il Quirinale sente il bisogno di precisare che osserva senza “reazioni né sentimenti”.