Servicelli d’Italia

di Salvatore Fiorentino © 2022

La lingua, si dice, è la radice dell’identità. Di un individuo, di un popolo, di una nazione. Sicché, non rinvenendosi, neppure nel rinnovato dizionario che introduce la parità di genere anche a costo di inaudite cacofonie, occorre precisare che il termine “servicello” non va ora inteso quale forma alterata, al bivio tra il vezzeggiativo e il dispregiativo, ma quale sintesi tra altri due termini, secondo la loro accezione letteraria, che ben caratterizzano il cittadino italiano senza infamia e senza lode: servo (Divina Commedia, Purgatorio, V, Dante, 1321) e travicello (Il Re travicello, Giusti, 1841). Del resto la effettiva e più pericolosa colonizzazione che l’Italia sta subendo dal secondo dopoguerra, ma in modo esponenziale nell’ultimo “ventennio” democratico, non riguarda tanto la dislocazione delle basi militari USA-NATO, ben imbottite di testate nucleari di cui si è perso pure il conto, quanto l’invasione dell’idioma inglese, che sta sostituendo progressivamente quello italiano (“price cap”, least but non last).

Non quindi un vezzo o un tentativo di sprovincializzazione, come si potrebbe a prima vista ritenere, ma una vera e propria sindrome di (dis-)identità, se i leader dei principali partiti italiani, di maggioranza (Giorgia Meloni) e di opposizione (Enrico Letta), hanno iniziato a diffondere, peraltro improbabili, video-conferenze parlando l’inglese, il francese, lo spagnolo, ma non l’italiano (col tedesco ci stanno lavorando, ma è più ostico). Discorso a parte merita il banchiere neoliberista Mario Draghi, che come lingua madre parla il dollaro e come dialetto l’euro, tetragono nel non cedere la scena, ed il potere, a chi è stato indicato dal popolo sovrano per governare l’Italia. La satira, quella vera che è costretta a riparare in TV di fortuna, ha già dato il meglio di sé raffigurando la metamorfosi (horrible!) della premier in pectore Meloni nelle sembianze del predetto premier dimissionario. Per il quale, fallito il Quirinale già prenotato, l’establishment ha inventato il ruolo di premier ex machina.

Eppure il popolo, a dispetto dei suoi sovrani appollaiati nei palazzi regali a guardare gli stucchi zecchini, ha chiaramente indicato la propria volontà di cambiamento: nel 2018 col 33% al Movimento Cinque Stelle, nel 2022 col 25% a Fratelli d’Italia, fatto quest’ultimo clamoroso, perché si tratta della destra ostracizzata e tenuta ai margini, per non dire ghettizzata, dai soloni dell’antifascismo da ZTL, quelli che si ricordano delle periferie, dei lavoratori, dei disabili, delle fasce deboli della popolazione, che dovrebbero rappresentare, solo in campagna elettorale, peraltro malcelando il fastidio di dover loro malgrado adempiere a questo ingrato compito, che difatti stride con l’estetica patinata dei manifesti e delle campagne mediatiche virtuali, tradendo platealmente la distanza siderale che separa questa nouvelle aristocratie dal mondo reale, dai cittadini in carne ed ossa, che invece pretenderebbe di governare, ma che vuole in verità ridurre al rango di servitù.

Il popolo la sua parte l’ha fatta, ma chi lo rappresenta no. E costoro continueranno a non farla. Il potere conferito dai cittadini al Movimento Cinque Stelle è stato usato contro il loro volere, per attuare politiche agli antipodi del programma elettorale. E’ ormai chiaro che la missione di questo movimento, ribelle e legalitario solo sulla carta, fosse e sia quella di imbrigliare il voto di protesta per riportarlo nell’alveo del potere dominante (PD), conclamatosi col governo di tutti e di nessuno presieduto da Mario Draghi e consacrato con la rielezione di Sergio Mattarella. Emergenza? Si, ma non sanitaria, non militare, non energetica, non climatica. Democratica. Senza il M5S non sarebbe mai potuto nascere il governo dei “migliori”, lo stesso che ha condotto il Paese sul baratro di una crisi socio-economica epocale, quello presieduto da chi è stato ed è tra i fautori delle privatizzazioni selvagge, causa oggi, tra l’altro, dell’incontrollabilità del mercato dell’energia.

E adesso tutti gli occhi sono strabuzzati sul nuovo governo che verrà (come l’anno cantato da Lucio Dalla al caro amico), mentre il maggiore partito di opposizione celebra l’ennesima rappresentazione teatrale, che dalla tragedia vira sempre più verso la farsa, alla ricerca della sinistra perduta, recherche (monsieur Enrico Letta docet) ispirata dall’omonima opera in sette tomi di Marcel Proust, in altri termini tempo perso, tanto per giustificare l’esistenza di questa classe dirigente élitaria e parassitaria. Mentre assume toni da psicodramma la ricerca della rotta da parte di una destra ritrovatasi a navigare mari aperti ed abissali (e ora come si fa?) con in mano il timone di un Titanic dove la festa impazza in prima classe senza curarsi che le scialuppe di salvataggio non bastano (ma c’è il reddito di cittadinanza), mentre all’orizzonte si staglia la punta dell’iceberg della catastrofe europea, dove i capitani incoscienti, usciti dall’accademia di Schettino, sembrano voler puntare, “whatever it takes”.

(continua)

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