“Mafia e appalti”: il PCI colluso con Cosa nostra?

di Salvatore Fiorentino © 2020

A parte una campagna di stampa condotta da un settore del giornalismo nostrano che può anche additarsi di faziosità (ma non più degli altri militanti schierati dalla parte della magistratura “democratica”), sebbene così facendo sia riuscito ad instillare nell’opinione pubblica il ragionevole dubbio che non tutto sia stato chiarito – il che impone una verifica ulteriore sino ad oggi omessa dalla magistratura palermitana che ritenne, forse inopinatamente o chissà perché, di archiviare il caso “mafia e appalti” – l’ultima (in ordine cronologico) personalità fuori dal coro (per questo tacciato di essere il “Corvo di Palermo”) ad affermare che Borsellino fu ucciso per il dossier “mafia e appalti” è Alberto Di Pisa.

Di Pisa ebbe in carico lo scottante fascicolo “mafia e appalti” ai tempi in cui era sostituto procuratore a Palermo, nel palazzo cosiddetto dei “veleni”, dove non ci si poteva fidare di nessuno. Questo fascicolo gli fu sottratto con uno stratagemma illecito posto in essere dall’allora alto commissario antimafia (ah l’antimafia!) Sica, che costruì false prove per accusare lo stesso Di Pisa (che fu poi completamente scagionato) di essere l’autore degli esposti anonimi che circolavano nel palazzo di giustizia palermitano ai tempi del “pool antimafia”. Fascicolo dal quale emergeva la chiave di lettura della spartizione degli appalti in Sicilia, tra mafia e politica, passato di mano in mano sino ad essere stranamente archiviato.

Su richiesta, vistata il 22 luglio 1992 (a tre giorni dalla strage di via D’Amelio), degli allora sostituti procuratori Guido Lo Forte (poi procuratore capo di Messina, oggi in pensione) e Roberto Scarpinato (procuratore generale di Palermo, ad oggi in carica) – quest’ultimo finito alla ribalta delle cronache per via di una raccomandazione risultata tra le carte di Antonello Montante e finalizzata ad ottenere la direzione della procura generale di Palermo, fatto accertato dalla procura di Catania e ritenuto non penalmente rilevante ancorché “discutibile”. Richiesta quindi accolta “burocraticamente” (su un modulo prestampato con un’adesione acritica alle tesi delle procura svolta in due righe) dal gip La Commare il 14 agosto 1992.

Da questo caso sembra nascere l’eterno dissidio (che non appare ad oggi completamente sanato, anche per via delle condanne, ancorché in primo grado, riportate dagli autori di quel dossier, ossia gli allora colonnello Mario Mori e capitano Giuseppe De Donno) tra il ROS dei Carabinieri, che sottopose alle valutazioni della procura palermitana il corposo dossier “Mafia e appalti”, e la stessa magistratura palermitana, con strascichi spiacevoli e per certi versi inconsulti, come le reciproche querele poi archiviate presso la sede giudiziaria competente di Caltanissetta e come le recenti accuse rivolte dall’ex procuratore Caselli al capitano De Caprio per la omessa perquisizione del covo di Totò Riina (di proprietà di un dirigente del PCI).

Eppure, rileggendo la richiesta di archiviazione, redatta dai sostituti procuratori Lo Forte e Scarpinato, emerge un quadro che averebbe dovuto imporre quanto meno un approfondimento delle indagini. Richiesta motivata sulla insufficienza del quadro probatorio – per molti versi a causa di questioni formali – a sostenere l’accusa in giudizio e non sull’insussistenza dei fatti rapportati dal ROS, tenuto peraltro conto del contesto nazionale in cui era esplosa la questione “tangentopoli” scoperchiata (ma solo in parte) presso la procura della repubblica di Milano. In particolare, meritava approfondimenti la vicenda della Rizzani de Eccher, impresa che lavorava nei primi anni ‘80 nell’allora URSS, ai tempi del PCI al 33%.

(08 novembre 2020)

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