di Salvatore Fiorentino © 2020
Dall’ultima relazione (lo scioglimento “anomalo” del comune di Scicli) della Commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava, forse la più scomoda mai esistita in Italia, inizia ad intravedersi la luce all’uscita del tunnel. Quello dei misteri, delle stragi, dei depistaggi, degli inquinamenti, delle deviazioni: che non hanno coinvolto le “istituzioni” ma che, più verosimilmente, sono state concepite e attuate dall’interno delle medesime. Per finalità non confessabili e da coprire dietro causali apparenti di tutela della legalità, ma in verità miranti al suo sovvertimento a vantaggio di centri di potere e di interessi occulti. Con un’antimafia ridotta al rango di “intelligence” strutturata per “rimuovere” gli “ostacoli”.
Ecco che la “fioritura” dei paladini dell’antimafia, sia nella politica che nell’imprenditoria e nella società civile, è stata strumentale e funzionale ad una epoca che doveva eleggere la finzione a verità, alimentando il teatro della doppiezza, con protagonisti e comprimari consapevoli e non, senza scrupoli o solo opportunisti, ma anche ingenui e utili idioti, taluni indotti dalla sete di carriera, talaltri fulminati dall’amore per il quieto vivere. Così fan tutti. Questa giostra dell’ipocrisia ha girato vorticosamente fin quando qualcuno ha iniziato a cadere dal piedistallo, invero malfermo, passando dagli onori concessi forse con troppa superficialità dai sommi vertici istituzionali dello Stato alle ristrettezze delle patrie galere.
Parafrasando Giuseppe Fava, potremmo dire che gli “antimafiosi” stanno ai vertici della nazione, sono senatori, sono ministri, talvolta presidenti della repubblica, sono procuratori generali, presidenti di cassazione; e sono anche grandi imprenditori, specialmente nei settori sensibili, quali quelli delle energie rinnovabili e dei rifiuti. E gli “antimafiosi” sono i capi di associazioni che hanno finito per assomigliare a delle sette, dietro le quali non di rado trovano riparo e alimento coloro che affermano di combattere: i mafiosi. Questi ultimi, in verità, una specie ormai protetta, in via d’estinzione, messa in crisi dalla concorrenza sleale che da quasi trent’anni devono subire, loro malgrado, dagli “antimafiosi” di lungo corso.
L’antimafia così intesa appare dunque l’ultimo ritrovato del “Deep State”, che nell’Italia repubblicana si è realizzato essenzialmente con due facce: la prima, quella democratica, legale, visibile, rappresentata dalle figure apparenti del potere; la seconda, quella eversiva, illegale, occulta, composta da detentori del potere reale nei settori strategici a cui tutto il resto poteva essere piegato ed asservito. Due mondi paralleli e comunicanti in cui i “servizi segreti”, per definizione operanti al confine tra lecito ed illecito, hanno costituito il necessario raccordo, in un primo momento tra Stato e eversione politica nonché tra Stato e mafia, ed in un secondo momento, dopo il tornante delle stragi degli anni ‘90, con la nuova “antimafia”.
Non sorprende, pertanto, che nel “caso Montante” emerga la presenza dei “servizi” sino ai più alti livelli, con commistioni tra banche, imprenditori, ministri, alti magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, alcuni decaduti mentre altri ad oggi saldamente ai loro posti, altri ancora improvvisamente inabissatisi in ruoli di potere defilati ed al riparo degli sguardi indiscreti di osservatori ed opinione pubblica. Così come non sorprende che per lo scioglimento di un piccolo comune dell’entroterra ragusano gli stessi “servizi” si attivino per attingere informazioni su persone scomode che saranno poco dopo costrette ad abbandonare i loro ruoli pubblici. Con sullo sfondo i “signori” del petrolio e delle grandi discariche dei rifiuti.
(20 settembre 2020)