di Salvatore Fiorentino © 2021
C’è qualcosa che non torna nella repubblica italiana, nel suo ordinamento. I dubbi di una democrazia apparente sono sempre più forti, e tra gli scontri di potere, da una parte e dall’altra, l’unico che infine ne paga le conseguenze è il cittadino. Per i potenti c’è sempre un lodo, un salvacondotto, una “trattativa”, una grazia ut des. I generali si salvano, a costo di sacrificare i loro soldati, talvolta qualche colonnello quando la posta in palio è molto alta. Il continuo ed inascoltato richiamo del presidente Mattarella ai valori costituzionali è eloquente indicatore di uno stato patologico in cui versano non solo le istituzioni, ma anche il tessuto costituito dalle élites, imprenditoriali, economiche, culturali, la cosiddetta “classe dirigente”.
La repubblica che era scaturita dal patto costituente ha ricostruito un paese ridotto in macerie dal regime fascista e da una monarchia inetta. Erano consentite tutte le libertà, tranne una: portare al potere il Partito Comunista Italiano. In Italia si era sfiorata la guerra civile con l’attentato a Togliatti, ma una tensione sotterranea ha sempre caratterizzato la vita pubblica del paese, emergendo con episodi che possono considerarsi epifenomeni, ma che vanno collegati per essere compresi. Di solito, della cosiddetta “strategia della tensione” se n’è data una lettura univoca, ossia di uno stato violento che impone il suo potere per limitare la democrazia. Ed ecco la catena delle “stragi di stato”, da Portella della Ginestra sino ai ‘90.
Accanto a questa prima lettura, non certo negabile, deve però aggiungersene una seconda, che ne costituisce l’altra faccia della medaglia. In questo modo, molti dei “misteri d’Italia”, trovano logicamente una loro spiegazione plausibile, facilitando la ricerca dei riscontri di prova a chi, ancora oggi, avesse in animo di raggiungere la verità per realizzare una giustizia effettiva e non solo declamata in principio. E’ quindi altrettanto non negabile che, nella lotta per il potere, vi siano state parti delle istituzioni dello stesso stato che si siano schierate per il raggiungimento dell’obiettivo di portare al potere il PCI, e comunque i suoi eredi, anche sotto le mentite spoglie di un democraticismo di sinistra che aveva sotterrato la falce e il martello.
Secondo la teoria delle “casematte del potere” di gramsciana memoria, nella spartizione post costituente tra democristiani e comunisti, i secondi, ormai all’opposizione, facendo di necessità virtù, puntarono ad una strategia di lungo termine, quella di infiltrare la società civile con la loro ideologia, chiedendo in appannaggio settori apparentemente inoffensivi, ma in verità determinanti, quali l’istruzione e soprattutto l’università, la cultura in genere. Mentre i democristiani dominavano su lavori pubblici, sanità e su tutto ciò che potesse produrre clientelismi di massa, da cui drenare il consenso elettorare a garanzia di un potere perpetuo. Status quo che viene messo in crisi quando la magistratura scende in campo.
La scuola “torinese” di Luciano Violante e Gian Carlo Caselli – il primo magistrato sulla carta ma politico fino alle estreme conseguenze, il secondo procuratore di lungo corso – concepiva una magistratura che per realizzare gli ideali di giustizia e democrazia dovesse “naturalmente” schierarsi sul fronte progressista contro quello “reazionario”, il che al di là di sigle e vessili di partito, significava una pregiudiziale politica e culturale forte e chiara. Sicché, complice la vanagloria e la brama di protagonismo e di potere all’interno al mondo togato, con la stagione di “mani pulite” e del “processo Andreotti”, da Milano a Palermo, si poteva finalmente realizzare la conquista del potere. Di cui Berlusconi è stato ostacolo.
(5 luglio 2020)