Magistratura infetta

di Salvatore Fiorentino © 2021

Il 2020 sarà ricordato non solo per la pandemia da “Coronavirus”, ma anche per l’apertura (molto parziale e con repentina tombatura, almeno per adesso) del più classico dei vasi di Pandora, quello della vera natura della magistratura italiana, scopertasi ben distante dall’immagine idilliaca che si era cristallizzata, e successivamente incrinata, con la “gloriosa” stagione di “mani pulite” per un verso, e per altro con la “epica” narrazione della “antimafia”. Con il risultato che le logiche “corruttive” e quelle “mafiose” hanno finito per infettare il corpo di una istituzione che sarebbe deputata a debellare queste endemie ormai pressoché inestirpabili dal tessuto della società, con l’aggravante che nessuno ne ricerca il vaccino. Anzi.

Si cerca di bloccare in tutti i modi chi vorrebbe fare pulizia tra le toghe, chi vorrebbe ripristinare lo stato di diritto non solo nella forma ma prima di tutto nella sostanza, perché la giustizia sia un servizio per i cittadini e non un potere autoreferenziale che può permettersi impunemente arbitrii e stravolgimenti tanto della lettera quanto dello spirito della “legge”. In parte ciò è stato ed è tutt’oggi possibile per il progressivo sfaldamento dello spessore umano, culturale e morale del magistrato medio, fenomeno che è complementare alla permeabilità nei confronti dei tentativi di adulazione, avvicinamento e corruzione che, come ci consegnano le cronache quotidiane, si rivelano ormai così diffusi da aver travalicato la soglia fisiologica.

Ma d’altra parte l’infezione della magistratura è dovuta alla progressiva rinunzia del magistrato a svolgere il proprio ruolo, non ritenendo che ciò superi in importanza ed onori qualsiasi altro ufficio, sia pur quello del parlamentare o dell’uomo di governo, il che ha dato la stura ad una ricerca smodata della ribalta mediatica con ogni mezzo e strumento a disposizione, con magistrati che coltivano la loro immagine come superstar o addirittura “influencer”, rubando tempo prezioso alla loro professione, che è fatta non solo di udienze e sentenze, ma soprattutto di riflessione, studio, approfondimento nel silenzio della propria coscienza, maturazione e affinamento delle doti di equilibrio e sacrifizio per il bene pubblico.

Invece li abbiamo scoperti, grazie allo spaccato impietoso offerto dalle chat private del capro espiatorio designato, tale Luca Palamara, a bramare per un avanzamento di carriera, per un trasferimento agognato, per una posizione di maggiore agio, ad offrirsi e ad offrire pur di ottenerli, a svendere la propria toga per un beneficio personale, a brigare per piazzare l’amico di cordata dal quale poi riscuotere la lauta ricompensa, ad organizzare banchetti sontuosi in location da mille e una notte per festeggiare (e non si capisce cosa ci sia da festeggiare) l’elezione al Consiglio Superiore della Magistratura, raccogliendo a piene mani la piaggeria di colleghi dimentichi che il giorno dopo avrebbero indossato, ma solo per coprirsi, una toga.

Non possiamo quindi farci meraviglia se c’è qualche magistrato che spacca il capello in dodicesimi per dimostrare che una sindaca onesta (come la Raggi) abbia commesso un falso, perché non basta l’assoluzione a formula piena in primo grado. Non basta così come è “lecito” affermare che Salvini debba essere “colpito”: ed è come un grido di guerra che viene raccolto. Così come non possiamo sorprenderci se quasi tutta la magistratura siciliana si autoassolva vicendevolmente, dato che è inzuppata irrimediabilmente dal “sistema Montante”, il che vale a dire che non c’è nessuno che potrà o vorrà perseguire i gravissimi delitti commessi dalla fittissima e radicata rete di potere deviato che si annida oggi più di ieri dentro le istituzioni.

(16 ottobre 2020)

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