di Salvatore Fiorentino © 2021
Venghino signore e signori, venghino, al “Mario Ciancio Show”. Niente a che vedere con il più famoso “Truman Show”, laddove il protagonista viveva in una città ideale che aveva solo un piccolo difetto: era tutto posticcio, compreso il cielo e il mare, tutto realizzato in un gigantesco studio televisivo, un reality show progettato per seguire l’inconsapevole attore dalla culla alla tomba. Nel caso nostro (o nella Cosa nostra), diversamente, è tutto incredibilmente vero, cielo e mare compresi, non esclusi i sontuosi banchetti a base di pesce. Non per niente siamo in una città che è stata definita la “Milano del sud”, urbis Catanae, ma che come poche altre ha coniugato la modernità dei “Cavalieri” con un assetto medioevale.
Il castello de “La Sicilia”. L’attuale sede del potere cittadino fu realizzata da un architetto di chiara fama – suo malgrado, del principe – e posta, come si conviene, sul punto più elevato, a dominare non solo simbolicamente, ma anche fisicamente, la città. Nel contempo centrale ma fuori dal traffico caotico, immediatamente collegata con le principali vie (di fuga) urbane. Al castello i cittadini modello venivano condotti per l’iniziazione sin dalle scuole elementari, mediante la rituale (e sacrale) visita al “giornale” (l’unico e solo). Così, zelanti insegnanti mobilitavano pullman gitanti con cronometrica precisione. E lo scolaretto impettito, che era figlio di un giornalista, portava già con sé la copia (gratis), quale distintivo del suo privilegio.
Il principe. Magnanimo con i sudditi fedeli, poteva diventare pericoloso, giammai in prima persona, ma grazie ad un efficace sistema di “bravi” collaboratori a tutto tondo, nei confronti di chi avesse solo osato metterne in discussione la primazia, alla quale non era consentito sfuggire per nessun motivo. Al più, si poteva chiedere una concessione speciale, ma dietro un’adeguata contropartita. Che non era la vile moneta, ma qualcosa di più nobile: il potere. Persino ai potenti forestieri, che fossero ministri, deputati e senatori, presidenti di regione e quant’altri, veniva imposto un singolare dazio: una visita al castello con tanto di riunione alla tavola (non rotonda) del padrone di casa, puntualmente immortalata sul “giornale” cittadino.
La città. Forse l’unica, nel Belpaese, ad aver sofferto il piombo delle rotative più di quello della mafia. Financo il giornale vessillo dell’intellighenzia progressista e legalitaria, “La Repubblica”, ebbe a rinunciare alla sua edizione locale a Catania, benché stampasse (o forse per questo) l’edizione nazionale presso le tipografie concessegli in uso dal principe padrone. Difatti, una volta vigliaccamente e brutalmente “risolto” il problema costituto dal giornalismo de “I Siciliani” di Giuseppe Fava e dei suoi “carusi”, chi mai avrebbe potuto o voluto osare una nuova iniziativa editoriale indipendente e soprattutto realmente a guardia del potere? Chi, se si negava il necrologio alla famiglia Montana e si pubblicava la lettera di Santapaola?
L’amico-vicino dei mafiosi. Chi poteva mettere in discussione il potere assoluto del principe? Per cinquanta anni ha regnato incontrastato, e soltanto quando raggiungeva (per mero fatto anagrafico) la soglia del trapasso a miglior vita, la pallida magistratura requirente catanese, ma sempre dopo il travaglio archiviatorio di chi oggi siede sul massimo scranno della pubblica accusa, si è degnata di imbastire un’indagine che si può così definire “alla carriera”. Nel frattanto, la corte d’appello etnea annulla il sequestro dei beni, tra cui il famigerato castello de “La Sicilia”, con una motivazione che, a detta del procuratore della repubblica, appare opinabile: essere un imprenditore “amico-vicino” di Cosa nostra non integra reato.
(29 marzo 2020)