di Salvatore Fiorentino © 2021
Si sono scritti tomi enciclopedici per descrivere, e spesso stigmatizzare, le gesta e le fattezze dei cosiddetti “radical chic”, ossia sinistrorsi che tutto sono tranne che gente di sinistra, laddove “sinistra” sta a designare l’area politico-culturale che dovrebbe stare dalla parte del lavoro e non del capitale, da quella dei più deboli e non dei più forti, che dovrebbe aspirare alla giustizia sociale piuttosto che alla divaricazione tra privilegiati e diseredati. Se si pensa agli esponenti politici, il più rappresentativo di questa “casta” può essere a ragione ritenuto l’ex presidente della Camera Fausto Bertinotti, che riuscì nell’impossibile impresa di rifondare il comunismo senza mai essere stato comunista, vantandosi di questa “prodezza”.
Avanti miei Prodi! Non c’è solo il professor “mortadella” in questo mondo, ma esistono anche gli omologhi dall’altra parte della barricata, quella che ama definirisi “liberal”. E che presto finisce per essere anche “chic”. Nel senso di noblesse oblige, tra haute couture e nouvelle cuisine. Quella indiosincratica avverso i lavavetri, i posteggiatori abusivi, i venditori ambulanti, i sans papiers, gli homeless e così via discriminando tutta la pur vasta umanità che vive ai margini della società perché vi è stata gettata da chi è stato più scaltro, più svelto, più spregiudicato a sfruttare il bisogno altrui e a capitalizzarlo in reddito pro capite. Sono coloro che vivono non di lavoro ma di rendite, di eredità, di elargizioni a vario titolo.
Il liberal chic. Se il radical chic è per autodefinizione “rosso”, il liberal chic è invece orgogliosamente “blu”. Ci tiene a dichiarare di essere bianco, cattolico e tradizionalista, legato ai valori della famiglia, del matrimonio, della monogamia, sino ad apparire bigotto. Il suo colore preferito è il grigio, così come grigia è la sua vita, routinaria, prevedibile e piatta. Si indigna per un cassonetto fuori posto, per un cane dal padrone maleducato che non ne rimuove i lasciti sui marciapiedi, che vorrebbe lindi come i pavimenti della propria domus, ché al suo passaggio non può ammettersi degrado, essendo costui un cittadino modello, ligio alle regole condominiali, così come a quelle del codice stradale, rispettoso della fila alle Poste.
La rivoluzione dorme. Così occupato a passare a setaccio l’umanità, che in fondo disprezza, il liberal chic non ha tempo per fare la rivoluzione (liberale, sia chiaro). Egli non ha davvero mai tempo, perché è sempre oberato, non si sa da che visto che demanda ogni incombente, rimanda ogni impegno, procrastina ogni traguardo, non si pone obiettivi se non quello del quieto vivere, del placido esistere, come se il tempo non passasse. Sicché, da portatore sano di razzismo, confida nel ducetto del momento, cercando rassicurazione nella delega di potere all’uomo forte e rude, che possa preservare quel piccolo mondo dalle minacce immaginarie che agitano la sua mente, dallo straniero invasore che voglia depredane i miserabili averi.
Apettando Godot. Incapace di fare la rivoluzione, il liberal chic attende quanto meno il cambiamento. Che però deve essere realizzato dagli altri, dai quali pretende comportamenti virtuosi nel senso di aderenti ai propri desiderata, non lesinando fendenti nel caso contrario. Fosse per lui si resterebbe nell’eterna attesa, con l’abolizione della prescrizione all’inazione, come se la vita fosse senza fine, ed in ogni fase della stessa possibile iniziare ciò per cui sia inesorabilmente sfiorita la stagione. Avulso dal tempo e dallo spazio, galleggia in aria con la leggerezza di una bolla di sapone, trasportato dalle correnti verso direzioni imprevedibili, finendo per cozzare con chi diversamente segue percorsi di vita indirizzati dal senso di realtà.
(8 febbraio 2020)