Il giornalismo della politica

di Salvatore Fiorentino © 2021

“Il Giornale” di Indro Montanelli è stato un monumento della carta stampata che ha scritto la storia del giornalismo italiano, perlomeno fino ad un certo punto. Inutile dire quale. “La Repubblica” di Eugenio Scalfari (“Careful With That Axe Eugene!”, bene direbbero i Pink Floyd), più modestamente, è stato il proto-tabloid italiano per eccellenza, che nei secondi ‘80 era saldamente impugnato, e distrattamente letto, dai quei giovani post-sessantottini che, seppur con lo zainetto Invicta sulle spalle e le Nike Wimbledon ai piedi, tuttavia guardavano ancora ad oriente, radical chic in nuce, ad immagine e somiglianza di papà e mamma antiborghesi per noia, radicali per posa. Poi venne “Il Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio.

Montanelli era il classico uomo, oltre che giornalista, tutto d’un pezzo. Come può esserlo solo chi ha attraversato l’orbe, tra una guerra e l’altra, dentro i fatti storici per fotografarli con la propria penna indelebile. Con trenta righe, diceva, si può spiegare il mondo. E forse ci riusciva anche con meno, con i suoi taglienti corsivi, Controcorrente. Conservatore, ma profondamente anarchico, allergico al potere, il suo vero amore era la stesura di un articolo, meno fare un giornale, né tanto meno gestirlo. Forse uno dei pochi esemplari di giornalista puro, che pur di rimanere fedele a sé stesso non esitò a sbattere la porta in faccia al parvenu dell’editoria (e della politica), tale Silvio Berlusconi, per fondare “La Voce”, il canto del cigno.

Scalfari è stato tutto l’opposto. Uomo da poltrona purchéfosse, stanziale oltremodo, ma specialmente consustanziale al potere, che ha idolatrato ed infine identificato con sé stesso medesimo. “Incontro con Io”, il suo libro parafilosofico, lo attesta senza tema di smentita. Si è distinto per lo stile antigiornalistico che, come è stato osservato dallo stesso Montanelli, appariva privo di capacità di sintesi, involuto, retorico, pomposo, magniloquente, sussiegoso, oracolare. Sino a giungere all’immancabile sermone domenicale con il quale narcotizzava i fedeli lettori, per la verità sempre più numerosi in un crescendo di vendite che certamente ne rinvigoriva l’ego già smisurato, sino alla certezza che il popolo di Repubblica fosse il migliore.

Se Montanelli è stato la tesi, Scalfari l’antitesi, ecco che Travaglio raggiunge, a suo modo, la sintesi. Allievo di Montanelli, rifiuta un incarico a “La Repubblica”, non apprezzandone la collocazione dichiaratamente a sinistra, prima di essere assunto stabilmente a “Il Giornale” del Maestro, che poi seguì nella breve ma intensa esperienza a “La Voce”. Imbattibile, a detta del medesimo Montanelli, come inquisitore, usa come pochi l’arma dell’archivio, che si dimostra efficace contro chi, come Berlusconi, non si cura di ricordare neppure le proprie dichiarazioni del giorno prima. Dopo l’esperienza a “La Repubblica” approda a “Il Fatto Quotidiano”, di cui diviene direttore. Ma finisce per apparire come il nume tutelare del M5S.

Così, se Montanelli propugnava un giornalismo perennemente all’opposizione del potere, quale che fosse, destra o sinistra, se Scalfari, agli antipodi, bramava per un giornalismo che venisse a coincidere con la quintessenza del potere, apparentemente sinistrorso, Travaglio, superata la fase – da ritenere in assoluto la migliore – del giornalismo d’inchiesta, pare ora cedere alle lusinghe della “politica”, ma non certo intesa come esercizio del potere quanto come incarnazione, concretizzazione, di certi ideali di legalità che, abbandonati per strada dalla gauche, sono stati riportati in auge, a furor di popolo, dal movimento pentastellato, tanto sul versante della lotta alla corruzione che alla mafia. E vale ancora cave canem?

(13 aprile 2018)

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